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sabato 11 agosto 2018

 

“Il sorriso di Marko”

di Marguerita Yourcenar

 

Ne “Il sorriso di Marko”, tratto da Novelle Orientali, Marguerita Yourcenar ritrae il paesaggio dell’estrema Dalmazia e il mito di Marko Kraliévitch

Quarto appuntamento con Racconti d’estate, racconti brevi scelti per voi da Popoff.  Questo sabato con Marguerita Yourcenar (1903-1987). Tante volte la famosa scrittrice francese di origine belga aveva,  nella sua vita, navigato verso la Grecia lungo un tragitto che mostrava in tutta la sua bellezza un paesaggio che, dall’estrema Dalmazia meridionale, si apriva al Montenegro. Un paesaggio che le ispirò le Novelle Orientali, tra cui il racconto di un mito, quello del principe serbo Marko Kraliévitch, e del suo sorriso.

 

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Il sorriso di Marko

di Marguerita Yourcenar

traduzione di Marina Zenobio

 

Il piroscafo galleggiava dolcemente sulle acque lisce come una medusa alla deriva. Un aereo piroettava, con un insopportabile ronzio da un insetto irritato, nello stretto spazio di cielo racchiuso tra le montagne. Era trascorsa solo la terza parte di un bel pomeriggio estivo, ma il sole era già scomparso dietro gli aridi contrafforti delle Alpi montenegrine disseminate di alberi rachitici. Il mare, al mattino così azzurro in tutta la sua estensione, prendeva tinte cupe all’interno di quel fiordo sinuoso, stranamente situato in vicinanza dei Balcani. Le forme umili e avvizzite delle case, la sana genuinità del paesaggio erano già slavi, ma la sorda violenza dei colori, la nuda alterigia del cielo facevano pensare all’Oriente e all’Islam.

 

La maggior parte dei passeggeri era scesa a terra, si stavano identificando ai doganieri vestiti di bianco e ai mirabili soldati dotati di un daga triangolare, belli come Angeli degli eserciti. L’archeologo greco, il pascià egiziano e l’ingegnere francese erano rimasti sul ponte superiore. L’ingegnere aveva chiesto una birra, il pascià beveva whisky e l’archeologo una limonata.

 

Questo paese mi eccita, disse l’ingegnere. Il molo di Kotor e quello di Ragusa sono indubbiamente gli unici sbocchi nel Mediterraneo di questo grande paese slavo, che si estende dai Balcani fino agli Urali, che ignora i confini mutevoli della mappa d’Europ, che dà risolutamente le spalle ad un mare che non lo penetra se non attraverso il difficile stretto del Caspio, di Ponto Eusino o delle coste dalmate. E in questo vasto continente umano, l’infinita varietà delle razze distrugge l’unità misteriosa dell’insieme tanto come la diversità delle onde rompe la monotonia maestosa del mare. Però ciò che mi interessa in questo momento non è né la geografia né la storia, è Kotor. Le Bocche di Cattaro, come le chiamano loro… Kotor, così come l’abbiamo vista dal ponte di questo transatlantico italiano. La Kotor scontrosa, ben nascosta, col suo sentiero a zig zag che sale a Cettigne, e la Kotor un po’ più inquietante delle leggende e dei canti delle gesta slave. Kotor l’infedele, che un tempo viveva sotto il giogo dei musulmani albanesi ai quali, come lei comprenderà, pascià, la poesia epica dei serbi non sempre rende giustizia. E lei, Loukiadis, che conoscete il passato come un contadino conoscere gli angoli più nascosti della sua fattoria, non mi dica che non ha mai sentito palare di Marko Kraliévitch.

 

Sono un archeologo – rispose il greco posando il suo bicchiere di limonata -. Le mie conoscenze si limitano alla pietra scolpita, e i suoi eroi serbi sono scolpiti nella carne viva. Certo, anche a me ha incuriosito questo Marko ed ho riconosciuto la sua orma in un paese molto lontano dalla culla della sua leggenda, in suolo prettamente greco, nonostante che la pietà serba abbia eretto monasteri molto belli…

 

Sul monte Athos – interruppe l’ingegnere -. I giganteschi resti di Marko Kraliévitch riposano in alcuni luoghi di quella montagna dove nulla è cambiato dal Medio Evo, eccetto forse la qualità delle anime, e dove sei mila monaci con chignon e barbe fluttuanti pregano ancora oggi per la salute dei loro pii protettori, i principi di Trebisonda, la cui stirpe si è sicuramente estinta da secoli. Com’è rassicurante che l’oblio è meno veloce, meno totale di quanto si pensi, e che esiste ancora un luogo nel mondo dove una dinastia del tempo delle Crociate sopravvive nelle preghiere di alcuni vecchi sacerdoti! Se non mi sbaglio Marko morì nel corso di una battaglia contro gli ottomani, in Bosnia o in un paese croato, però il suo ultimo desiderio è stato quello di essere sepolto in quel Sinai del mondo ortodosso, e una barca riuscì a trasportare lì il suo cadavere, nonostante le barriere coralline del mare orientale e le imboscate delle galee turche. Una bella storia, che mi fa pensare, non so perché, all’Ultimo viaggio di Arturo…

 

Esistono eroi in Occidente, ma sembrano legati alle loro armature di principi come i cavalieri del Medio Evo lo sono ai loro gusci di ferro, ma in questa terra serba e selvaggia abbiamo l’eroe nudo. I turchi, sui quali Marko si scagliava, devono aver avuto l’impressione che una quercia di montagna gli cadesse addosso. Già vi ho detto che a quel tempo il Montenegro apparteneva all’Islam, le bande serbe erano poco numerose per contendere apertamente ai circumcisus il possesso della Crna Gora, la Montagna Nera da cui il paese ha preso il nome.

 

Marko Kraliévitch aveva stabilito relazioni segrete in un paese infedele attraverso cristiani falsamente convertiti, funzionari scontenti, pascià caduti in disgrazia e in pericolo di morte. Riteneva sempre più necessario mettersi direttamente in contatto con i suoi complici. Ma la sua elevata statura non gli permetteva di infiltrarsi in terreno nemico travestito da mendicante, da musicista cieco o da donna. Nonostante quest’ultimo travestimento sarebbe stato possibile per la sua bellezza, lo avrebbero certamente riconosciuto per l’enorme longitudine della sua ombra. Tanto meno si poteva pensare di ormeggiare una canoa in un angolo nascosto della sponda di un fiume: innumerevoli sentinelle, appostate sulle rocce, opponeva la loro molteplice e infaticabile presenza ad un Marko solo e assente. Ma dove una barca è invisibile un buon nuotate può confondersi, e solo i pesci conoscono la sua rotta tra due acque. Marko incantava le onde, nuotava bene come Ulisse, il suo antico vicino di Itaca. Incantava anche le donne: i complicati canali del mare lo portava spesso a Kotor, ai piedi di una casa di legno consumata, che rantolava sotto il colpi delle onde.

 

La vedova del pascià di Scutari passava lì le sue notti sognando Marko, e i giorni aspettandolo. Frizionava con olio il suo corpo congelato dai baci bianchi del mare, lo riscaldava nel suo letto, gli facilitava gli incontri notturni con i suoi agenti e i suoi complici. Allo spuntar del giorno scendeva in cucina, ancora deserta, a preparargli i suoi piatti preferiti. Lui si era rassegnato a suoi seni pesanti, alle sue gambe grosse, alle sue ciglia che si univano proprio in mezzo alla fronte, al suo avido amore e al suo sospettare di donna matura; conteneva la rabbia nel vederla sputare quando lui si inginocchiava per il segno della croce. Una notte, la vigilia del giorno in cui Marko aveva intenzione di tornare a Ragusa a nuoto, la vedova scese come sempre in cucina per preparargli da mangiare. Le lacrime le impedivano di cucinare con la solita cura; purtroppo ne uscì un piatto di capretto troppo cotto. Marko aveva bevuto, la sua pazienza era rimasta in fondo al boccale: la prese per i capelli con le sue mani appiccicose e urlò:

 

“Cagna del diavolo, volevi farmi mangiare una capra centenaria?”

“Era un bell’animale, il più giovane del gregge”, rispose la vedova.

“Era duro come la tua carne da vecchia, e aveva lo stesso maledetto odore. Che ti cuociano allo stesso modo all’inferno!”, disse il giovane cristiano ubriaco.

 

E con un calciò tiro il piatto fuori dalla finestra aperta che si affacciava sul mare.

La vedova lavò in silenzio il pavimento macchiato di grasso e il suo viso gonfio di lacrime. Non si mostrò né meno tenera né meno calda del giorno prima e all’alba, quando il vento del nord iniziava a soffiare sulla ribellione delle onde del golfo, sussurrando dolcemente chiese a Marko di ritardare la sua partenza. Lui acconsentì e nelle ore più calde del giorno tornò a letto per un pisolino. Al risveglio, mentre si stiracchiava pigramente davanti alle finestre protetto dagli sguardi dei passanti da complicate persiane, vide brillare delle scimitarre: una truppa di soldati turchi aveva circondato la casa bloccando tutte le uscite. Marko corse verso il balcone sospeso sul mare, le onde rimbalzando si rompevano sulle rocce col rumore di un lampo nel cielo. Marko si strappò la camicia e si tuffò in quella tempesta in cui nessuna barca aveva osato avventurarsi. Le montagne ondeggiavano sotto di lui, lui ondeggiava sotto le montagne.

 

Il comportamento della vedova indusse i soldati a perquisire la casa senza trovare traccia del giovane gigante scomparso ma, alla fine, la camicia strappata vicino al balcone li mise sulla pista giusta. Si precipitarono sulla spiaggia urlando di terrore e indispettiti. Ogni volta che un’onda feroce si apriva ai loro piedi i soldati retrocedevano, lo sfogo del vento sembrava riportargli la risata di Marko e l’insolente schiuma uno sputacchio in faccia. Marko nuotò per due ore, nuotò senza avanzare neanche di una bracciata. I nemici miravano alla sua testa ma il vento dirottava le frecce. Lui spariva, poi ricompariva sulla stessa roccia verde. Alla fine la vedova legò saldamente lo scialle alla sua ampia e docile vita da albanese, un abile pescatore di tonni riuscì ad imprigionare Marko nella sua rete, il nuotare ormai senza fiato si lasciò trascinare sulla spiaggia.

 

Nel corso delle sue battute di caccia per le montane del suo paese, Marko aveva visto molte volte animali che si facevano credere morti per evitare di essere uccisi. L’istinto lo aveva portato ad imitare questo stratagemma: il giovane dalla pelle pallida, che i turchi avevano obbligato a tornare alla spiaggia, era rigido e freddo come un cadavere di tre giorni, i capelli sporchi di schiuma erano attaccati alle tempie, i suoi occhi fissi non rispecchiavano più l’immensità del cielo e della notte, le sue labbra salate dal mare si erano paralizzate nelle mandibole contratte, le sue braccia pendevano abbandonate e lo spessore del suo petto impediva di auscultare il suo cuore. Le persone più importanti del villaggio si chinarono su Marko, le loro lunghe barbe solleticavano il suo viso e dopo, rialzando tutti la testa, esclamarono all’unisono:

“Allah! E’ morto come un topo marcio, come un cane schiacciato. Buttiamolo di nuovo in mare che lava le immondizie perché il suo corpo non disonori la nostra terra”.

 

La malvagia vedova iniziò a piangere, poi a ridere:

 “Ci vuole più di una tempesta per affogare Marko – disse -, e più di un nodo per strangolarlo. Lo vedete così, ma non è morto. Se lo buttate in mare incanterà le onde come ha incantato me, povera donna, e le onde lo porteranno al suo paese. Prendete chiodi e martello, crocifiggete questo cane come fu crocifisso il suo dio che non verrà qui in suo aiuto, e poi vedremo se quelle ginocchia si torceranno dal dolore e se la sua maledetta bocca non vomiterà urla”.

 

I carnefici presero chiodi e martello dal tavolo di un mercante di barche e trapassarono le mani del giovane serbo e attraversarono i suoi piedi da lato a lato. Ma il corpo del torturato restò inerte, nessun tremito scosse quel viso apparentemente insensibile. Persino il sangue non usciva dalla sua carne lacerata se non per gocce lente e rare. Perché Marko dominava le sue arteria come dominava il so cuore. Così, l’uomo più vecchio gettò il martello ed esclamò con pietà:

Che Allah ci perdoni per aver provato a crocifiggere un morto! Leghiamo una grande pietra al collo del cadavere ché l’abisso seppellisca il nostro errore e che il mare non lo restituisca.

 

Ci vogliono mille chiodi e cento martelli per crocifiggere Marko Kraliévitch – disse la perfida vedova -. Prendete dei carboni ardenti sul suo petto e vedrete se non si torcerà dal dolore come un gran verme nudo.

 

Gli aguzzini presero della brace dal falò di un maestro calafato e tracciarono un grande cerchio sul petto del nuotare gelato dal mare. I carboni arsero, poi si spensero e divennero neri come una rosa rossa che muore. Il fuoco intagliò sul petto di Marko un grande anello di carbone, simili a quei cerchi tracciati nell’erba dalle danze degli stregoni, ma il ragazzo non piangeva, neanche un pelo gli tremò.

 

Allah – dissero gli aguzzini -, abbiamo peccato perché solo dio ha diritto di torturare i morti. I suoi nipoti, i suoi figli, i suoi zii verranno a vendicare questo oltraggio: seppelliamolo in un sacco con grandi pietre perché neanche il mare sappia che cadavere gli diamo da mangiare.

 

Disgraziati – disse la vedova -, strapperà tutte le tele e si libererà di ogni pietra. Meglio che facciate venire le ragazze del villaggio, e ordinare loro di ballare in cerchio sulla spiaggia. Poi vedremo se l’amore non continui a torturarlo.

 

Chiamarono le ragazze, che per l’occasione indossarono i vestiti migliori. Arrivarono con tamburelli e flauti, si presero per mano per ballare in circolo intorno al cadavere, la più bella di tutte dirigeva la danza con un fazzoletto rosso tra le mani. Emergeva tra le sue compagne per la superbia dei suoi capelli neri e del suo collo bianco: era come il capriolo che salta, come il falco che vola. Marko, immobile, si lasciava toccare da quei piedi nudi, ma il suo cuore agitato batteva in forma sempre più violenta e disordinata, così forte che ebbe paura che gli spettatori potessero ascoltarlo e, tuttavia un sorriso di felicità quasi dolorosa si disegnò sulle sue labbra, che si muovevano come per baciare. Grazie al lento oscuramento del crepuscolo gli aguzzini e la vedova non avvertirono questi segnali di vita, ma gli occhi chiari di Haishé rimanevano sempre fissi sul volto del giovane perché le sembrava bello. All’improvviso lasciò cadere il fazzoletto rosso per mascherare quel sorriso e disse, con tono altezzoso:

Non mi piace ballare davanti al viso scoperto di un cristiano morto, per questo gli ho tappato la bocca la cui sola vista mi terrorizzava.

 

Ma proseguì le sue danze affinché l’attenzione degli aguzzini calasse e arrivasse l’ora della preghiera per cui sarebbero stati costretti ad allontanarsi dalla riva. Alla fine, dalla cima di un minareto, una voce gridò che era ora di adorare Dio. Gli uomini si diressero verso la piccola moschea dura e temibile; le ragazze stanche si sgranarono verso il paese trascinando le loro babbucce. Haishé ogni tanto girava la testa, solo la vedova diffidente restò a vigilare il falso cadavere. All’improvviso Marko scatto a sedere, prese con la mano destra un chiudo dalla sua mano sinistra, prese la vedova per i suoi capelli rossicci e la colpi alla gola. Dopo, togliendo con la mano sinistra il chiodo dalla mano destra, glielo infilò in fronte. Subito dopo strappò i due chiodi che gli trapassavano piedi e li utilizzò per cavarle gli occhi. Quando gli aguzzini tornarono, invece che il corpo nudo di un eroe trovano il cadavere straziato di una vecchia. La tempesta si era calmata, ma le barche testarde si davano vanamente alla caccia del nuotatore scomparso nel ventre delle onde.

Non è che Marko riconquistò il paese e rapì quella bella ragazza che gli aveva risvegliato il sorriso, ciò che mi impressiona non è la sua gloria o la sua felicità, è quell’eufemismo delizioso, quel sorriso sulle labbra di un torturato per il quale il desiderio è il più dolce dei supplizi. Osservate: la notte cade; possiamo quasi immaginare sulla spiaggia di Kotor il piccolo gruppo di aguzzini lavorando alla luce dei carboni ardenti, la ragazza che balla e il giovane che non resiste alla bellezza.”

 

E’ una storia singolare – disse l’archeologo -. Però certamente la versione che ci offre è recente. Deve esisterne una ancora più primitiva. Mi informerò.

 

Farebbe male – disse l’ingegnere -. E’ stata offerta tale e quale alla versione che mi hanno raccontato i contadini del villaggio dove ho trascorso il mio ultimo inverno, lavorando alla perforazione di un tunnel per l’Orient Express. Non vorrei parlar male dei suoi eroi greci, Loukiadis: si chiudevano nelle loro tende in preda alla disperazione, urlavano di dolore per i loro amici morti, appendevano per i piedi i cadaveri dei nemici nelle città conquistate ma, mi creda, all’Iliade è mancato un sorriso di Achille.