https://www.geopolitica.ru/it Archeofuturismo vs Mondialismo Nell’antichità nessuna civiltà emergente sentiva la necessità di preservare la benché minima traccia di quella che l’aveva preceduta. La civiltà nascente radeva tutto al suolo, tutto seppelliva e sulle rovine andava ad edificare la nuova pòlis. Men che meno la civiltà precedente veniva evocata come fonte di una qualche ispirazione sapienziale capace di dare la linea ai nuovi “codici giuridici”. La stessa Roma, rinnovandosi (per esempio passando dalla monarchia, alla repubblica e da questa all’impero) distruggeva e riedificava secondo i parametri della nuova concezione, elaborando passo passo ildiritto e la ragion d’essere. La nostalgia di ciò che era stato obliato comincia con il Rinascimento, nel corso del quale in filosofia, arte, letteratura e architettura ci si ispira alla classicità perduta. Ma è solo in tempi relativamente recenti che l’ossessione non solo per vestigia significative, ma anche per frammentarie frattaglie del passato (cioè per le cose morte e di per sé irrilevanti) ha assunto forme ipertrofiche: tant’è che si arriva al punto che un microscopico frammento di un orinatoio del romano impero ha diritto di cittadinanza al museo. È un caso che la più grande potenza mondiale in costante espansione economica, finanziaria, geopolitica, militare, non abbia tale necessità — il culto dei ruderi — e risulti vincente proprio perché nella prassi si comporta come le antiche civiltà? È un caso che vinca perché non condizionata da un pensiero tradizionale, da antiche radici, da arcaici modelli di sviluppo ed edificazione del sociale, e proceda invece a forgiarne di nuovi senza soluzione di continuità? Che dunque avanzi, a livello mondiale, estirpando e distruggendo ogni riferimento all’originario per imporre i propri parametri culturali e “politici”? Se ci si pone in questa prospettiva anche sulla scorta degli ultimi accadimenti che hanno preso l’abbrivio con la presidenza Trump, si può rilevare l’essenza dello scontro in corso tra i propugnatori di una concezione unipolare e i sostenitori del multipolarismo – questi ultimi auspicando un mondo che veda la coesistenza di una molteplicità di gangli geopolitici da contrapporre all’idea di un governo unico planetario. La proposta multipolare è tanto più vigorosa quanto più chi la formula può mettere sul piatto radici plurisecolari che hanno portato alla germinazione di intere civiltà. Su questo piano, se da una parte abbiamo gli USA che effettivamente portano avanti la propria “civilizzazione planetaria” senza alcun richiamo a radici originarie e avendo come mira il far tabula rasa di tutto ciò che è arcaico, dall’altra abbiamo in prima posizione la Russia ben tallonata da altri stati come Cina, India e Iran. Nel mezzo l’Europa con i suoi Stati, preda al loro interno e trasversalmente di una sorta di “guerra civile” che vede quanti assecondano la civilizzazione di matrice americana contrapposti a chi vi si oppone. Le élite progressiste — di fatto allineate alla “civilizzazione” statunitense se non addirittura loro diretta espressione — non riescono a capire il perché dello spostamento di massa, istintivo e per certi versi reazionario verso le istanze populiste e sovraniste. Eppure è molto semplice da capire. Il modello di sviluppo, la “civilizzazione” statunitense determina una sorta di vertigine nella misura in cui procede a recidere le radici arcaiche a cui inconsciamente i popoli sono attaccati. E se a livello, diciamo così, elitario c’è consapevolezza di questo sradicamento in atto, a livello di massa si è sul piano viscerale del sentimento, dell'istinto primario: il processo di cancellazione di quelle radici causa un disagio anche psicologico, e di qui nasce la tendenza a valorizzare anche il minimo frammento delle civiltà del passato, avvertite come antagoniste rispetto a quella che avanza. Nella “civilizzazione americana” tale complesso di principi trascendenti è totalmente assente. Si tratta di una “civiltà” che edifica in assenza di principi ma che produce valori soggettivi in costante rimodulazione benché tutti orientati verso la decadenza, la sottrazione e l'esaltazione di quanto sta sotto, in basso. Basti pensare al già citato esempio della famiglia, per cui oggi ha valore una “famiglia” sempre più allargata fino al punto di essere ormai priva di argini e confini. Cosa sono dunque i populismi se non un effettivo moto di rigetto verso questa “civiltà mondiale”, fondata su valori soggettivi in continua e veloce rimodulazione? Oggi i popoli, essendo privati delle élite (cloroformizzate e soffocate dal dominio mediatico totalmente asservito al Grande Fratello), rispondono specularmente al fermento mondialista. Come il mondialismo è entrato in una fase per cui si autoriproduce attraverso la contaminazione delle coscienze che vengono orientate verso valori privi di radice, allo stesso modo il populismo è una reazione a questa contaminazione; e senza particolare induzione, istintivamente, passa attraverso il recupero anche delle frattaglie, dei ruderi di un passato agganciandosi più ad essi che non allo spirito che quelle frattaglie e quei ruderi, prima ancora che fossero tali, aveva già abbandonato per andare oltre. Ma, così come il mondialismo genera i suoi “imperatori” e i suoi generali, anche il populismo, inteso come fenomeno spontaneo stimolato nella sua crescita e affermazione da alcune lucide menti, finirà — se già non ha iniziato a farlo, e qui dipende dai punti di vista — con il generare i suoi “imperatori” e generali, magneti capaci di attrarre il materiale ferroso disperso nella palude. E dunque la sintesi che fatalmente andrà a contrapporsi alla prassi mondialista sarà quella che con felice espressione Guillaume Faye ha chiamato Archeofuturismo: recupero delle radici essenziali che vanno a far germogliare rami che si protendono nel futuro. E qui, ovviamente, se l’arcaico ha un senso originario, il richiamo al futurismo nulla ha anche vedere con quel che era l’avanguardia artistica del secolo scorso che, oggi come oggi, altro non è che passatismo. Sorvolo qui su quella che è la proposta “archeofuturista” di Guillaume Faye, affrontata sulle pagine di questa rivista da Alfonso Piscitelli nel numero 9 (giugno 2018), sottolineando solo il fatto che l’idea di un archeofuturismo va ben oltre la teorizzazione di Faye.
Si può essere ottimisti sulla possibilità che un fronte archeofuturista possa prendere quota? |