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Economia geopolitica. La disciplina del multipolarismo di Radhika Desai Traduzione di Ascanio Bernardeschi
Gli studiosi di relazioni internazionali sono stati a lungo complici del dominio occidentale e sono stati incapaci di prevedere e spiegare il multipolarismo. Una nuova disciplina si contrappone alle finzioni della scuola economica neoclassica e fornisce strumenti per cambiare le politiche statuali.
Con la crescita della Cina e di altre economie emergenti che espandono capacità produttiva e politica al di là delle roccaforti originarie dell’Occidente e del Giappone, dovrebbe essere incontrovertibile – ma così non è – l'idea che il mondo stia diventando velocemente, se non lo è già, multipolare. Le due discipline che studiano gli affari mondiali in Occidente, international relations (IR), che si concentra solo sulla politica, e international political economy(IPE), che è stata fondata negli anni '70 con lo scopo esplicito di considerare l'economia, non sono riuscite a prevedere o spiegare il multipolarismo. Una volta costrette ad affrontarlo all'indomani della crisi del 2008, che ha tenuto l'occidente nella stagnazione mentre le economie emergenti hanno continuato la loro rapida crescita e accelerato l'avanzata del multipolarismo, hanno risposto in gran parte con negazionismo e ostilità, piuttosto che con obiettività e analisi. Insistere sulla realtà e/o desiderabilità della supremazia americana e occidentale contro riscontri crescenti, non consente di comprendere il potenziale progressivo del multipolarismo. Questo è il segno segno più sicuro dell'obsolescenza di queste discipline.
Questo lavoro caldeggia una nuova disciplina accademica, l'economia geopolitica, che è maggiormente in grado di far comprendere il mondo multipolare, ricostruire la sua evoluzione storica e valutarne il suo potenziale innovativo. Le sezioni seguenti lo spiegano e delineano i suoi elementi chiave: la centralità dlla funzione economica degli stati nel mondo moderno o ciò che chiamo "la materialità delle nazioni", la dialettica tra lo sviluppo disomogeneo e combinato (uneven and combined development UCD), il percorso verso il multipolarismo e le potenzialità che quest’ultimo contiene per il cambiamento progressivo.
Il caso dell'economia geopolitica In The Discipline of Western Supremacy [1], Kees van der Pijl sostiene che l'IR è stata a lungo complice delle istituzioni e delle pratiche della supremazia occidentale e statunitense. I suoi approcci "idealista" e "realista" hanno articolato e amministrato un modello di governo mondiale liberale radicato nel pensiero anglo-americano 'Lockiano'. Nello spiegare il termine "disciplina" nel suo duplice significato – quello di un campo di studi accademico e quello di un insieme di politiche, pratiche, discorsi e istituzioni per far rispettare un certo ordine – van der Pijl mostra che l'IR è stata la disciplina della supremazia occidentale in entrambi i sensi.
Nel mio economia geopolitica: dopo l'egemonia degli Stati Uniti, le teorie della globalizzazione e dell'impero [2] sostenevo che gli approcci principali dell'IPE, l’egemonia degli Stati Uniti e la globalizzazione, poggiassero su una concezione cosmopolita dell’economia mondiale, come un’unità armoniosa. Basati sulle idee del libero scambio del diciannovesimo secolo, queste concezioni vedono l'economia mondiale governata o dai mercati, cioè il libero scambio e la globalizzazione, o da uno stato dominante, cioè l'egemonia statunitense. Nel primo caso, nessuno stato ha importanza, nel secondo ne ha solo uno. La suddivisione del mondo in una moltitudine di stati-nazione è contingente e irrilevante: nel migliore dei casi rappresenta una diversificazione culturale.
Questa visione serviva un fine ideologico quando una singola potenza poteva dominare il mondo, come il Regno Unito nel diciannovesimo secolo, o tentare di farlo, come hanno fatto senza successo gli Stati Uniti nel ventesimo.
Trattando l'economia mondiale come un'estensione di quella della potenza dominante, tali concezioni hanno tenuto fuori dal loro copione il processo più rilevante che genera la multipolarità: quello degli stati che intervengono nell’economia per promuovere la crescita industriale al fine di evitare o invertire il loro destino di appendici agricole o subordinate in altro modo ai paesi capitalistici industriali e di sfidare invece il loro dominio.
Queste critiche mostrano che l’IR e l’IPE condividono un concetto comune: il mercato che si autoregolamenta. È la conditio sine qua non del capitalismo. Separa falsamente la politica dall'economia, come sfera quest’ultima della libertà dei capitalisti, oscurando l'ingiustizia e l'anarchia del capitalismo. Criticarle, significherebbe ammettere che le forze sociali, soprattutto lo stato, debbano intervenire per correggerle, e limitare le libertà dei capitalisti. Marx ha deriso questa idea definendola "economia volgare". Tuttavia essa non ha impedito agli stati di salvare i capitalisti dalle vere crisi del capitalismo, come abbiamo visto anche recentemente, nel 2008, quando l’intervento statale nell’economia ha largamente meritato il ruolo di arma contro le richieste dei lavoratori di un’azione statale in loro favore.
Il mercato autoregolamentato non è un rudere del diciannovesimo secolo. Lo ritroviamo etichettato come economia neoclassica, corrente emersa negli anni '70 del XIX secolo appositamente per spodestare l'economia politica classica dopo che Marx e Engels risolsero i suoi problemi rimasti in sospeso in direzione comunista, e l’avevano resa inservibile per la legittimazione della società capitalista. L'economia neoclassica tornò indietro rispetto a Marx ed Engels aggrappandosi a due ‘finzioni ricardiane’ [3]: la legge di Say, che negava la sovrapproduzione e le crisi capitalistiche, e la teoria dei vantaggi comparati, che raffigurava il libero scambio come reciprocamente vantaggioso per tutte le nazioni, nonostante che i potenti paesi capitalisti esternalizzassero le loro eccedenze scaricando merci su società incapaci di resistere alla concorrenza internazionale. L'economia neoclassica è all'origine della divisione sociale del lavoro scientifico che oggi organizza la produzione intellettuale occidentale. Quando Max Weber giustificava la necessità della separazione delle discipline in sfere autonome con proprie logiche, aveva in mente soprattutto l’autonomia della scienza ’economcia, nonostante che l'economia neoclassica, l'ideologia dell’autoregolamentazione del mercato, contamini tutte le altre scienze sociali, come l’IR o l’IPE. Neppure la sinistra e la cultura critica ne restano incolumi [4].
Non è stato considerato abbastanza il modo in cui l'ideologia del mercato autoregolamentato distorce la nostra comprensione degli affari internazionali. Le politiche neoliberali sono giustamente criticate in quanto compromettono il progresso della transizione e delle economie in via di sviluppo, e si sostiene addirittura, per bocca di uno specialista che esse equivalgono a "buttare via la scala" [5] della protezione economica e della pianificazione che ha permesso lo sviluppo dell'occidente. Tuttavia, tali critiche non forniscono una comprensione completa delle reali dinamiche delle relazioni internazionali nell'era del capitalismo.
Questo è invece ciò che offre l'economia geopolitica. Cerca di recuperare l'economia politica classica, compresi Marx ed Engels, e di avvalersi dei successivi critici dell'economia neoclassica, inclusi John Maynard Keynes, Michael Kalecki, Karl Polanyi e i teorici contemporanei dei "Developmental states" [teoria dello stato sviluppista, NdT]. Collegando queste correnti di pensiero, l'economia geopolitica sbaraglia quella neoclassica con le sue finzioni ricardiane del mercato autoregolamentato e supera la falsa separazione tra economia e politica. Evita anche la tendenza delle moderne scienze sociali volta a vagheggiare che vi sia un dominio separato dell'"internazionale" con le sue dinamiche autonome e considera le relazioni internazionali radicate negli impulsi e nelle motivazioni sociali derivanti dalla struttura interna e dalle dinamiche che gli stati si portano dietro nell’interazione con gli altri.
A questa concezione originale proposta dall’Economia geopolitica, l'arguta argomentazione di Van der Pijl secondo cui l’IR è la disciplina della supremazia occidentale mi ispira un nuovo argomento, cioè che l’economia geopolitica è la disciplina del multipolarismo, la disciplina più adatta alla comprensione del declino della supremazia occidentale e statunitense e dell'ascesa della multipolarità, facendo conoscere alle istituzioni e alle pratiche la possibilità di sfruttare il potenziale della multipolarità per un mondo più equo e più giusto.
Note: [1] K. Van der Pijl, The Discipline of Western Supremacy, London, Pluto 2014 [2] R. Desai, Geopolitical Economy: After US Hegemony, Globalization and Empire, London, Pluto 2013 [3] Ib. p. 34 [4] R. Desay, The Value of History and the History of Value in Turan Subasat (ed) The Great Meltdown of 2008: Systemic, Conjunctural or Policy-created?, Cheltenham, UK and Northampton, MA, USA, Edward Elgar Publishing [5] Chang, Ha-Joon, Kicking Away the Ladder: Development strategy in historical perspective, London, Anthem, 2002
02/06/2018 parte seconda
Il ruolo dello stato nei paesi imperialisti e nei paesi emergenti ha cambiato le caratteristiche del capitalismo. Il modello di sviluppo regolato ha dimostrato la sua superiorità
La materialità delle nazioni capitaliste Il capitalismo soffre di molti tipi di crisi [6] anche se i suoi analisti più acuti si concentrano in particolare sulla sua tendenza alla sovrapproduzione di merci e capitali. Marx e Keynes hanno criticato la legge di Say secondo cui non ci possono essere eccedenze [7] mentre l'economista ungherese, Janos Kornai, contrapponeva il capitalismo, come sistema vincolato dalla domanda, con il socialismo vincolato dall’offerta. In Marx l'idea di pletora del capitale assume la forma della caduta tendenziale del saggio del profitto e in Keynes quella del declino dell'efficienza marginale del capitale. [8] Dal momento che il capitalismo non è solo un sistema di sfruttamento e anarchico ma funge anche da struttura produttiva delle società in cui si è insediato, gli stati capitalisti sono inevitabilmente coinvolti, cercando di risolvere i suoi problemi e, così facendo, modificano considerevolmente il capitalismo stesso. Karl Polanyi ha esposto questo argomento in modo peculiare: nel capitalismo, lavoro, terra e denaro sono trattati come materie prime anche se non sono prodotti per la vendita. Questo trattamento sconvolge così tanto le società che le stesse e gli stati devono rispondere con la protezione sociale, attraverso forme di tutela del lavoro, regolamenti ambientali e sociali. [9] Quindi il capitalismo è sempre il sistema in cui i mercati sono intrecciati con le normative che li modificano.
Nel gestire le contraddizioni del capitalismo e i deficit di legittimità, gli stati agiscono a livello internazionale e/o a livello nazionale, a seconda dei costi relativi che i rapporti di forza sociali e internazionali impongono.
Gli stati nazionali possono regolare i rapporti tra i capitalisti per salvarli da una concorrenza potenzialmente rovinosa. Possono inoltre regolare le relazioni tra i capitalisti e altre classi - per esempio garantendo ai contadini prezzi di sostegno, o ai lavoratori normative sui salari o sulle condizioni lavorative, in modo che rimangano a disposizione forniture quantitativamente e qualitativamente adeguate di materie prime e manodopera. Le azioni statali riflettono l'equilibrio delle forze sociali: mentre possono aiutare i capitalisti a combattere la caduta dei profitti limitando le retribuzioni dei lavoratori imposte storicamente dalle lotte della classe operaia per democratizzare i rapporti sociali e costruire il welfare.
A livello internazionale, come hanno sottolineato le principali teorie classiche marxiste dell'imperialismo, la sistematica tendenza alla sovrapproduzione e al surplus di capitale, ha portato all'imperialismo formale e informale. [10] Territori deboli o privi di stato, che potevano essere colonizzati formalmente a buon mercato dai potenti stati capitalisti servivano da sbocchi per le materie prime e i capitali eccedenti, come pure molte colonie informali. La loro soggezione poteva inondare quella società di beni e capitali della madrepatria in eccesso. Mentre potevano sembrare momentaneamente vantaggiose, queste merci in genere distrussero le capacità produttive dei nativi e, in definitiva, la capacità delle colonie di consumare tutti i beni con cui esse erano inondate. Da parte sua, gli investimenti in entrata hanno messo gli apparati produttivi indigeni sotto il controllo dei capitalisti e dei poteri stranieri.
Mentre molte società non hanno potuto resistere alla colonizzazione, altre hanno potuto farlo, come il percorso delle ex colonie. È grazie a questa dialettica di dominio e resistenza internazionale che, contrariamente all’immagine di un capitalismo mondiale unificato e armonioso, la dinamica delle relazioni internazionali capitaliste ha mostrato fin dagli inizi una turbolenta logica stato-centrica, la logica dell'UCD.
Sviluppo irregolare e regolato (UCD) Sebbene Trotsky abbia delineato l’UCD in modo più completo nella sua Storia della rivoluzione russa [11], le radici di tale idea risiedono in Marx ed Engels, nell'economia politica classica e nella struttura intellettuale comune con cui i rivoluzionari russi compresero perché la prima rivoluzione comunista del mondo avesse luogo in un paese arretrato. [12] L'intellettuale russo emigrato, Alexander Gerschenkron [13], che insegnò la storia economica sovietica ad Harvard, portò una versione dell’UCD nelle alte sfere accademiche americane del dopoguerra.
Secondo l’UCD, lo sviluppo capitalista è intrinsecamente squilibrato, concentrato in particolari paesi e regioni. Nello stesso modo in cui creano disuguaglianze di classe all'interno delle singole società, il capitalismo le crea tra di esse e pertanto esiste sia la lotta di classe fra le nazioni, che quella al loro interno. A differenza delle trite formulazioni dell'IR "realista" sulle eterne lotte interstatali, nell'UCD, la lotta internazionale è specificamente capitalista. Le nazioni capitaliste più avanzate cercano di mantenere ed estendere le disuguaglianze e con esse la loro capacità di esternalizzare le conseguenze delle contraddizioni del capitalismo. Questo è, in effetti, l’imperialismo. Tuttavia, lo sviluppo regolato assicura che esso non sia una struttura costante e immutabile.
Le altre nazioni non subiscono volentieri questo dominio. Quelle che possono cercano di sfidarlo, attraverso lo sviluppo regolato o concorrenziale, promuovendo lo sviluppo industriale con il protezionismo e la pianificazione delle loro economie. Ciò può assumere forme capitaliste, come nell'industrializzazione degli Stati Uniti, della Germania e del Giappone alla fine del diciannovesimo secolo, o forme non capitaliste come in Unione Sovietica e in Cina. Anche se lo sviluppo regolato non sempre riesce, senza di esso non è possibile alcun recupero della crescita, né in Occidente né altrove. [14]
Mentre gli stati dominanti perseguono la complementarità tra le loro economie e quelle dominate, per esempio assegnando loro il ruolo di mercati per i prodotti industriali e quello di fornitori di materie prime o manodopera a basso costo, le nazioni competitrici cercano di raggiungere i primi, in termini di livelli di industrializzazione e sviluppo tecnologico.
L’UCD, al pari della lotta di classe, si traduce anche in una maggiore regolamentazione statale. Il mantenimento e l’estensione delle diseguaglianze implica vaste azioni degli stati tanto quanto l’impegno nello sviluppo regolato. Entrambi gli sforzi modificano anche il funzionamento del capitalismo. La principale differenza è che in genere il primo caso implica l’allargamento delle libertà del capitale a livello interno e internazionale mentre il secondo comporta la loro restrizione e il controllo e direzione dell'economia nello sviluppo capitalista, addirittura eliminando del tutto tali libertà con il comunismo. Non c'è da meravigliarsi se i capitalisti di solito sono preoccupati per lo sviluppo regolato: molti di loro sono stati creati grazie a tali politiche ma potrebbero anche esserne disfatti in quanto, come ha sottolineato Fred Block, è "del tutto possibile che il capitalismo di stato [cioè lo sviluppo regolato] costituisca puramente una tappa sulla via di una qualche forma di socialismo ". [15]
Naturalmente, lo sviluppo regolato è ostacolato anche dai paesi dominanti. La prima guerra fu notoriamente combattuta tra nazioni che difendevano lo "status quo" e quelle concorrenti. La guerra fredda fu qualcosa di più che una gara tra capitalismo e comunismo: venne condotta contro lo sviluppo regolato in generale, sia esso capitalista o comunista. Quest'ultimo era, tuttavia, la forma più forte di sviluppo regolato e ancora oggi, quello della Cina, governata dal Partito Comunista, è la più forte delle sfide affrontate dalle potenze capitaliste, mentre il potere militare ancora forte della Russia che le fronteggia è un lascito dell’epoca sovietica. Nonostante la retorica del libero mercato, la direzione statuale si è storicamente dimostrata più capace di produrre crescita rispetto al coordinamento del mercato. [16 ]
Il multipolarismo è il risultato del fatto che, nello svolgersi della dialettica tra sviluppo irregolare e quello regolato, quest'ultimo ha prevalso sul primo. Esso ha diffuso la capacità produttiva in tutto il mondo in ondate successive: l'industrializzazione rivaleggiante di Stati Uniti, Germania e Giappone intorno al 1870; l'industrializzazione dell'URSS negli anni '30 accompagnata da briciole di industrializzazione nei paesi coloniali, divenute possibili perché la Grande Depressione aveva interrotto i legami commerciali tra l'Occidente e le sue colonie; i rilanci postbellici a conduzione statuale dell'Europa occidentale e del Giappone; la prima ondata nei paesi di recente industrializzazione (Corea del Sud e Taiwan) negli anni '70, poi seguiti da altri; e, in questo scorcio di XXI secolo, i BRIC e altre economie emergenti. Dal momento che ogni ondata ha lasciato un gruppo più numeroso di sistemi economici emergenti di successo che competono tra loro per i mercati e gli sbocchi degli investimenti, si sono presentate ai paesi meno sviluppati più possibilità di scelta e si è ulteriormente agevolato lo sviluppo regolato.
L'UCD considera le lotte di classe e internazionali nella medesima cornice, e scorge che possono spesso rinforzarsi l'una con l'altra. Ecco un esempio importante. Le classi lavoratrici dei paesi imperialisti potrebbero aver beneficiato dell'imperialismo per il fatto che i capitalisti hanno investito i profitti realizzati in tutto il mondo in modo eccessivo nel paese d'origine, espandendo l'occupazione. Tuttavia, hanno beneficiato ancora di più della decolonizzazione e del perseguimento dello sviluppo regolato da parte dei nuovi paesi indipendenti nel periodo post-bellico. Mentre i paesi imperialisti perdevano i mercati coloniali e dovevano fare assegnamento più sui mercati interni e su un consumo più elevato della classe lavoratrice, potevano avere maggiore successo le richieste della di quest’ultima di salari più elevati. Il consumo della classe lavoratrice in proporzione al reddito nazionale totale subì un aumento univoco dopo la seconda guerra mondiale e da allora è rimasto più o meno costante. Nel frattempo, anche tentativi moderatamente riusciti di sviluppo regolato riuscivano a registrare tassi di crescita dei redditi pro capite multipli di quelli pressoché nulli sotto il colonialismo. [17] È stata questa crescita dei paesi capitalistici, sviluppati e in via di sviluppo, trainata prevalentemente a livello nazionale, che ha gettato le basi per la favolosa crescita del periodo post-bellico, nota come "l'età dell'oro".
Note:
09/06/2018 Parte terza
Gli Usa sono stati la prima potenza economica mondiale, ma non una potenza egemonica in quanto nel corso della sua supremazia lo sviluppo è stato trainato dalle economie regolate.
Egemonia Usa? L’UCD [acronimo per Uneven and Combined Development, sviluppo irregolare e regolato, n.d.t.] rimette in discussione molte leggende sull'ordine mondiale capitalista generato dopo la fine dell'età dell'oro con la riapparizione delle politiche e delle idee neoliberali del libero mercato. La principale tra queste narrazioni è che gli Stati Uniti siano subentrati al Regno Unito come “potenza egemonica” economica mondiale. Lo sviluppo irregolare può aver consentito al Regno Unito di dominare l'economia mondiale per un certo tempo [18], tuttavia non solo l'industrializzazione concorrente di Stati Uniti, Germania e Giappone ha messo fine al suo dominio negli anni '70 del XIX secolo, ma la pluralità di questi contendenti ha reso il mondo multipolare: l'inevitabile dominio del Regno Unito era diventato irripetibile. Gli strenui tentativi degli Stati Uniti di emulare tale, sia pur ridimensionato, dominio, a cui gli studiosi di egemonia [19] hanno dato la dignità di una teoria, spinti fino a rendere il dollaro la valuta degli scambi internazionali, data l'impossibilità di acquisire un impero formale, sono inesorabilmente falliti, lasciando solo uno strascico di distruzione.
Il mondo entrato nella trentennale crisi dal 1914 al 1945 [20] è potuto diventare multipolare, ma è rimasto imperiale. La crisi dell'UCD ha cambiato la struttura e la dinamica delle economie nazionali e mondiali e la realtà internazionale emersa da quel crogiolo appare composta non da imperi ma da economie nazionali. L’ago della bilancia della storia ha puntato in maniera più sostenuta verso lo sviluppo regolato e non verso il mantenimento del disordine, dal quale, come non mai, dipendevano le speranze degli Stati Uniti.
A livello internazionale, proprio quando i paesi capitalisti erano impantanati nella Grande Depressione, l'URSS si è industrializzata e ha assicurato la vittoria degli alleati. Il comunismo nell'Europa orientale e in Cina ha posto ancora più territori e popolazioni al di fuori della sfera del capitalismo e il blocco comunista allargato ha sostenuto la decolonizzazione e ampliato le possibilità di sviluppo regolato. Sebbene sia stato per le economie arretrate molto più difficile di quanto fosse stato per altri paesi fuoriuscire dal colonialismo, lo sviluppo regolato del mondo in via di sviluppo fu significativo e ha costituito la base della crescita impetuosa degli anni '80, '90 e 2000 [21]. Inoltre la minaccia del comunismo ha costretto gli Stati Uniti a consentire lo sviluppo regolato nell'Europa occidentale e in Giappone e, nei decenni a successivi, nei Paesi di recente industrializzazione (NIC) come la Corea del Sud e Taiwan, che erano in prima linea contro il comunismo.
Sul piano nazionale, le economie si sono orientate verso il mercato interno e governate dagli stati come mai prima di allora. La nuova centralità della domanda interna della classe lavoratrice è stata cruciale, rompendo un importante anello del dominio e della subordinazione, a livello sia internazionale che nazionale, e ponendo le basi dell'età dell'oro. La ricerca della crescita, essenziale per mantenere il peso relativo dell'economia nazionale quale questione di prestigio internazionale (senza tralasciare il potere di voto nelle istituzioni internazionali chiave come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale) o per mantenere ed estendere le chance delle le classi capitalistiche nazionali, richiedeva soprattutto l'espansione della domanda interna. La pianificazione del recupero dei ritardi e dello sviluppo, insieme alla conduzione macroeconomica volta a mantenere l'occupazione e i livelli di domanda o espandere lo stato sociale e i servizi pubblici, sono state accompagnate da una gelosa protezione dei produttori e dei mercati nazionali. Gli sforzi degli Stati Uniti per mantenere 'l'apertura' delle altre economie alle sue esportazioni, si sono impantanati in negoziati commerciali faticosi, mentre i tentativi di dare un esempio di apertura si risolvevano unicamente nell’esporre la sua economia alla crescente penetrazione delle importazioni e alla perdita di competitività. Dopo il crollo avvenuto nell’intervallo fra le due guerre mondiali, il commercio internazionale ha registrato una ripresa, ma è cresciuto meno del PIL, rivelando la centralità della domanda interna.
I paesi in via di sviluppo di nuova indipendenza sono cresciuti in modo abbastanza vigoroso e sono diventati più determinati sulla scena internazionale con richieste di un nuovo ordine economico internazionale (NIEO) volto a facilitare lo sviluppo regolato. Questa crescita ha iniziato a ridurre il divario di reddito pro capite tra il mondo in via di sviluppo e quello sviluppato. Probabilmente, per ironia della sorte, questa riduzione del divario è stata frenata proprio perché l'espansione della domanda della classe operaia ha alimentato una crescita talmente alta nei paesi sviluppati, tanto che l'Europa occidentale e il Giappone hanno esibito la quota maggiore della crescita dell'epoca. Lo sviluppo regolato ha reso possibile l'età d'oro della crescita proprio per aver modificato il capitalismo al fine di renderlo utile a settori più ampi della società.
Questa realtà fatta di economie nazionali ha fatto naufragare le speranze americane basate sul dollaro. Sebbene gli Stati Uniti siano rimasti la principale potenza economica, nonostante la crescita dell'età dell'oro abbia dimezzato il loro peso relativo sull’economia mondiale, non sono stati che una delle economie nazionali. Il successo della sterlina come moneta mondiale era stato un prodotto dell’impero: le colonie britanniche fornivano i surplus finanziari che la Gran Bretagna esportava per assicurare la liquidità mondiale. Senza colonie, gli Stati Uniti non hanno potuto esportare capitali nella misura necessaria, mentre erano necessari investimenti per prevenire una diminuzione più rapida delle dimensioni relative e la forza della classe lavoratrice organizzata faceva divenire politicamente importanti i livelli occupazionali.
Keynes, nella conferenza di Bretton Woods, aveva previsto questa nuova situazione e proposto misure monetarie internazionali volte a consentire alle economie nazionali di perseguire mutualmente la prosperità: il Bancor, una moneta mondiale per saldare legalmente i disavanzi commerciali, creata in maniera multilaterale, un'unione per la compensazione internazionale concepita per minimizzare tali squilibri, penalizzando il surplus commerciali e finanziari al pari dei deficit, nonché i controlli sui capitali in grado di impedirne i flussi speculativi a livello internazionale. La potenza degli Stati Uniti ha potuto sconfiggere queste proposte ma non garantire il successo del dollaro. Ciò che appare come un continuo dominio postbellico del dollaro è stato, in effetti, una serie di ripetuti tentativi e fallimenti.
Incapaci di esportare capitali nella misura necessaria – il Piano Marshall verso l’Europa occidentale era troppo piccolo e negli anni '50 ci fu scarsità di dollari – gli Stati Uniti risposero al bisogno di liquidità internazionale con i disavanzi delle partite correnti. Questo espediente fu, tuttavia, soggetto al dilemma di Triffin: i deficit producono una spinta al ribasso del dollaro, riducendo la sua accettabilità come moneta mondiale. Con la convertibilità di altre valute nel 1958, la penuria di dollari si è trasformata in un eccesso di dollari. L'oro è uscito dagli Stati Uniti: né la provvista d'oro del 1961 né la serie di altri espedienti potevano essere d'aiuto e nel 1971, venne spezzato il legame del dollaro con l'oro.
Note: [18] Anche se è dubbio che questa posizione dominante possa essere definita un'egemonia: si veda James Parisot, Expanding Geopolitical Economy: A Critique of the Theory of Successive Hegemonies in Radhika Desai (a cura di), Theoretical Engagements in Geopolitical Economy, London, Emerald, 2015. [19] Il fondatore principale fu Charles Kindleberger. Si veda il cap. 5 di Geopolitical Economy (cit.). [20] Il concetto è di Arno Mayer. Si veda il suo The Persistence of the Old Regime, New York, Pantheon, 1981. [21] Per il caso dell'India lo sostengo in Dreaming in Technicolour: India as a BRIC economy, pubblicato nell’ International Journal (Autumn 2007), pp. 779-803 e, per il caso della Cina lo sostiene Martin Hart Landesberg in Martin Hart Landesberg e Paul Burkett, China and Socialism: Market Reforms and Class Struggle, New York, 2005, Monthly Review Press.
16/06/2018 Parte quarta
I capitalisti occidentali hanno scelto il modello liberista e la finanziarizzazione per sostenere i profitti, ma dietro all’esempio della Cina avanza un modello socialmente più sostenibile.
La lunga recessione e la sue finanzializzazioni Se lo sviluppo regolato ha stimolato l'età dell'oro, è anche vero che essa è finita verso il 1970. Questa è la principale implicazione del magistrale resoconto di Robert Brenner del "Long Boom", come egli chiama l’età dell’oro, e del Long Downturn [lunga recessione] [22]. La lunga fase di recessione, che affligge il mondo industriale avanzato fino ai giorni nostri, è stata causata dal calo dei tassi di profitto nel settore manifatturiero dovuto alla sovrapproduzione e all'eccesso di capacità produttiva, registrate in concomitanza con la ripresa dell'Europa occidentale e del Giappone, rispetto alle dimensioni della domanda. E la lunga recessione è perdurata, egli sostiene, perché, mentre la prosecuzione dello sviluppo regolato ha aggiunto più produttori, compresa ora la Cina, né le imprese né i governi possono permettere un "massacro dei valori dei capitali" – una svalutazione del capitale in valore se non in termini fisici – nella misura necessaria per riavviare forti investimenti produttivi. Sarebbe insensato, determinando perdite economiche a vantaggio dei concorrenti.
L'espansione della domanda mondiale mediante l’aumento della produttività e del consumo della classe operaia e dei popoli del terzo mondo era la via d'uscita caldeggiata dalla Commissione Brandt. Ciò, tuttavia, avrebbe comportato il rafforzamento di quei soggetti a scapito delle classi capitaliste occidentali. Si è preferito l'alternativa neoliberale: tentare di migliorare la redditività colpendo i redditi dei lavoratori e del terzo mondo. Dopo oltre tre decenni dalla sua attivazione da parte dei nuovi governi negli anni '80, viene alla luce che questo approccio non solo non ha ripristinato la redditività [23], ma ha aggravato il problema di fondo, limitando l’espansione della domanda. Il ventunesimo secolo trova l'occidente afflitto da capitalismi sfibrati e finanziarizzati, con il Giappone in una stagnazione a lungo termine e con le crisi del 2008 e del 2010 che affliggono gli Stati Uniti e l'Europa.
La crescita nel corso del Long Downturn non solo è stata inferiore a quella del Long Boom, ma è stata anche a somma zero e di natura finanziaria. Nel Long Boom praticamente tutti i paesi crescevano insieme, ora, con l’attacco alle classi lavoratrici occidentali e con i mercati interni stagnanti, una parte del mondo industriale avanzato può crescere solo a spese degli altri. Il mondo in via di sviluppo ha subito due "decenni persi" negli anni '80 e '90 nell'ambito dei programmi di adeguamento strutturale del FMI e della Banca mondiale, mentre negli anni '90 le economie di transizione sono state bloccate dalla "terapia d'urto". Infine, nella lunga fase di recessione, la crescita è diventata finanziaria, affidata al rigonfiamento di bolle speculative che sono scoppiate in modo sempre più distruttivo e culminate nelle crisi del 2008 e del 2010. In questa storia, i continui tentativi degli Stati Uniti di salvaguardare il ruolo mondiale del dollaro hanno giocato un ruolo fondamentale. Tutte le economie capitaliste in stasi sono esposte alla finanziarizzazione in quanto i profitti non vengono investiti in modo produttivo ma speculativo. Tale finanziarizzazione, tuttavia, sarebbe rimasta in ambito nazionale, in assenza della serie di prodotti finanziari denominati in dollari, essenzialmente bolle sulle quotazioni delle attività internazionali, da cui è dipeso il ruolo mondiale del dollaro dopo il 1971 i conseguenti cambiamenti, come la pressione degli Stati Uniti su tutti i paesi per revocare i controlli sui capitali. È così aumentata la domanda speculativa di dollari, compensando la tendenza al ribasso di quella moneta dovuta ai deficit statunitensi.
Poiché le crisi finanziarie hanno messo in ginocchio in tutto il mondo economie solide, la scia di distruzione di queste fianziarizzazioni non solo ha aumentato le critiche al ruolo mondiale del dollaro [24], ma ha spinto i soggetti privati e pubblici che lo detenevano a distaccarsene. Gli alleati più stretti degli Stati Uniti, gli europei, sono stati in prima linea nel mollare il dollaro dalle loro transazioni reciproche, attraverso il lancio del "Serpentone" monetario nei primi anni '70, culminato nell'euro negli anni 2000. Prescindendo dai problemi attuali, l'euro ha aperto la strada a nuovi accordi presi nel ventunesimo secolo, nell’ultima ondata dello sviluppo concorrenziale, da altri paesi, in particolare la Cina e i BRIC, che vanno da accordi bilaterali relativamente modesti, al commercio delle rispettive valute nazionali, alla gigantesca Banca per lo Sviluppo delle Infrastrutture Asiatiche. Queste iniziative sono concepite per fornire capitali di investimento a lungo termine e non richiedono la liberalizzazione dei movimenti di capitale, potenzialmente pericolosa, come al contrario avviene in Occidente per i capitali a breve termine che richiedono la liberalizzazione, non vengono mai investiti in modo produttivo, gonfiano pericolose bolle speculative ed esigono una costosa copertura assicurativa dei fondi accumulati. Dato che il multipolarismo permette lo sviluppo di nuovi concorrenti e consente a sempre un numero crescente di paesi di rifiutare il sistema del dollaro, oggi si riconosce ampiamente che la supremazia del dollaro nel mondo sia prossima alla fine, tanto che persino il Regno Unito, che è stato il supporto fondamentale del sistema del dollaro, ha compreso che la City di Londra, se vuole continuare a essere un importante centro finanziario mondiale, deve collegarsi alla Cina e al nuovo modello di finanza che rappresenta.
Il potenziale progressivo della fase multipolare L’antitesi nel ventunesimo secolo tra la crescita della Cina e di altre economie emergenti e la stagnazione nel mondo industriale avanzato non è fortuita, ma profondamente radicata nell'UCD. Mentre tutti i paesi in via di sviluppo e in transizione non sono stati in grado di resistere all'assalto neoliberale durante il Long Downturn, una nuova coorte di economie emergenti è stata capace di impegnarsi in uno sviluppo regolato coronato da successo sia perché si tenevano in gran parte al di fuori dei dettami occidentali, come la Cina, sia per essere in grado di mantenere una certa autonomia dall'agenda neoliberista internazionale, come l'India, o di riconquistarla dopo aver sperimentato i disastri del neoliberismo, come la Russia e l'America Latina negli anni 2000. La crescita nelle economie emergenti sta diffondendo il benessere materiale più ampiamente di quanto avvenuto finora e si mantiene per lo più vigorosa perché queste economie sono considerevolmente meno finanziarizzate e maggiormente concentrate sulla crescita produttiva. La sfida di questi paesi verso l'Occidente è evidente nei principali forum di governance economica internazionale: nelle richieste di riforma del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, nelle situazioni di stallo all'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e nei vertici sul clima, e nella costruzione delle istituzioni finanziarie parallele già menzionate. Lo dimostrano anche le crescenti tensioni militari, in particolare nel Medio Oriente, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale.
Il succo di questi conflitti sta nel fatto che i governi occidentali, in particolare quello statunitense, e le classi capitaliste non sono disposti ad accettare che prosegua lo sviluppo regolato delle economie emergenti e le modifiche ai sistemi di governo economico internazionale che con esso divengono possibili e necessarie, perché minacciano di ridurre le opportunità di fare profitti in gran parte speculativi e parassitari, proprio mentre si va riducendo la speranza di incrementarli. Peraltro ancora inferiori sono le possibilità di evitare tale sviluppo.
Se questi scontri sono costati ingenti perdite di vite e di mezzi di sopravvivenza, la logica che vi sta dietro rivela tendenze assai più incoraggianti. Sembrerebbe che l'accelerazione dello sviluppo regolato abbia creato un mondo in cui la crescita, anche laddove assume forme capitalistiche, possa avvenire solo attraverso modalità più controllate socialmente e all’interno delle nazioni, e quindi anche potenzialmente più democratiche e popolari, con la necessità di regolare maggiormente le attività dei capitalisti. Ciò potrebbe non essere negativo per i lavoratori occidentali, per i paesi in via di sviluppo e in transizione complessivamente e anche per i loro lavoratori.
I capitalismi finanziari dell'Occidente e del Giappone non sono più in grado di produrre una crescita produttiva di ampiezza accettabile. Al momento, la morsa delle classi capitalistiche finanziarie sulla politica sta mantenendo le scelte dei governi occidentali circoscritte a una politica monetaria avente l’unico scopo di fornire liquidità alle stesse istituzioni finanziarie che hanno causato la crisi, in modo che possano continuare a realizzare l'unica forma di profitto di cui ora sono capaci, la speculazione, mentre l'economia produttiva e i livelli di occupazione languiscono e la povertà e le disuguaglianze salgono alle stelle. Questa politica inaccettabile è giustificata pubblicamente con chiacchiere sull’idoneità della politica monetaria a cambiare i livelli di attività economica e sulla necessità che la crescita si attesti intorno alle strettoie delle compatibilità della politica monetaria. Queste chiacchiere servono a tenere a bada l'unica alternativa in grado di rilanciare un’ampia crescita produttiva, cioè un massiccio programma di spesa e investimenti pubblici, per il semplice fatto che ciò equivarrebbe a interventi governativi di dimensioni talmente imponenti da rimpiazzare i capitalisti alla guida dell'economia. È improbabile che questa percezione rimanga confinata nei circoli dominanti: la spinta delle circostanze è destinata a portarla nelle strade di Atene e Madrid tanto quanto nelle trascurate aree post-industriali declinanti delle città statunitensi. Molti intellettuali e organizzazioni stanno già chiedendo tali investimenti nei settori dell’ambiente, della creatività e della cultura.
Nelle economie emergenti, la crescita costante dovrà coinvolgere l'espansione della domanda delle rispettive classi lavoratrici, mentre i mercati occidentali si esauriscono e, naturalmente, altri mercati vengono maggiormente protetti. La dirigenza cinese sembra aver compreso più chiaramente questa evidenza: è impegnata in una serie di iniziative per espandere la domanda interna, a cominciare dal boom degli investimenti post 2008, continuando negli ultimi aumenti salariali, e culminando di recente negli ambiziosi piani per promuovere lo sviluppo verso il finora trascurato occidente come parte della sua nuova Via della Seta e delle Migliori Iniziative. Il suo successo ha reso l'esempio cinese molto influente nelle capitali delle economie emergenti. Non solo: la forza delle circostanze sta indirizzando le élite di tali nazioni in una direzione simile. Ciò può avvantaggiare i lavoratori dei paesi in via di sviluppo e in transizione e la maggior parte dell'umanità, offrendo ulteriori possibilità di successo alle loro lotte per il miglioramento materiale e culturale. (fine)
Note: [22] Robert Brenner, The Economics of Global Turbulence: The advanced capitalist economies from long boom to long downturn, 1945–2005, London, Verso, 2006 e What is good for Goldman Sachs is good for America: the origins of the current crisis, 2009, www.sscnet.ucla.edu/issr/cstch/papers/BrennerCrisisTodayOctober2009.pdf (accesso 21/09/12). [23] Alan Freeman, The Profit Rate in the Presence of Financial Markets, Australian Journal of Political Economy, no. 71, pp. 167-192. [24] Tra le principali quelle del Governatore della Banca Popolare Cinese Xiaochuan Zhou, Reform the international monetary system, Pechino, People’s Bank of China, 2009. Radhika Desay, docente di Comparative Politics e Political Economy all’Università di Manitoba (Canada), ha pubblicato un suo interessante lavoro tendente a illustrare una nuova disciplina per lo studio del multilateralismo. La ringraziamo per averne consentita la pubblicazione sul nostro giornale. Per motivi di spazio, traduciamo e pubblichiamo l’introduzione e il primo capitolo del suo scritto. L’originale in inglese, nella sua versione integrale, insieme a molti altri suoi lavori sull’argomento, è disponibile qui (NdT)
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