The Economist Fonte: Barbadillo https://www.ariannaeditrice.it/ 28/11/2017
La Russia è fiera della sua identità e combatte la globalizzazione Intervista integrale dell’Economist al filosofo Alexander Dugin.
The Economist: Qual è il tratto distintivo dell’identità russa e in che modo è differente dall’identità europea? Alexander Dugin: Prima di tutto, per capire quale sia la differenza tra l’identità russa e quella europea, dobbiamo comprendere cosa sia l’identità europea, e non è semplice farlo per due ragioni. Prima di tutto, ora, l’identità europea, da ciò che riesco a capire, è definitivamente distrutta. Per questo il concetto di identità è giudicato dall’agenda progressista come qualcosa che dovremmo superare. L’identità liberal europea consiste nel negare qualsiasi identità, come se fosse una trasgressione. Essere Europei oggi significa non essere Europei, ma essere dalla parte degli immigrati, dei musulmani e di tutti tranne che degli Europei. Ogni volta che qualcuno si definisce come un cittadino legato alle proprie radici e alla propria cultura, non sembra un semplice conservatore, ma un nazista. Sei irrimediabilmente etichettato come estremista. Oggi l’identità europea è negazione. Ovviamente non è sempre stato così. La vera differenza con l’identità russa è che noi neghiamo questa negazione. Non ci vergogniamo di essere Russi. Non abbiamo alcun senso di colpa. Non ci pentiamo di nulla. Questa è la differenza: per essere tedesco oggi devi vergognarti di ciò che ha fatto la Germania. Essere la Gran Bretagna oggi significa avere rimorso per tutto ciò che l’Impero britannico ha fatto in passato. Essere Americani vuol dire vergognarsi della parte meridionale della storia, della tratta degli schiavi. Non abbiamo rimorsi, quindi siamo immediatamente marchiati per il fatto che abbiamo una appartenenza, e questo è un crimine per il mondo occidentale moderno. Non è sempre stato così. Prima, l’Occidente accusava l’Oriente o i cattolici incolpavano gli ortodossi per molte ragioni. C’erano già le tensioni geopolitiche, ma erano diverse. Per noi oggi l’identità ha un valore. The Economist: Ma qual è la Sua identità e cos’è che La rende orgoglioso? Tutte le cose che ha elencato sono cose negative, ma qual è l’identità positiva? Dugin: Qualsiasi identità che non si basa sulla negazione dell’identità stessa è considerata, nel processo del capitalismo, come qualcosa di profondamente sbagliato. La negazione è connaturata al concetto di identità moderna, liberale, globalista. Quindi, prima di tutto, cerchiamo di conservare con orgoglio la nostra identità, non siamo disposti a perderla. La nostra identità è per lo più cristiana. E ne siamo fieri. Siamo orgogliosi di essere cristiani ortodossi e non solo cristiani come, ad esempio, protestanti. Perché fa parte di noi, il cristianesimo ortodosso ha formato la nostra cultura, la nostra letteratura. Dostoevskij era orgoglioso di essere cristiano ortodosso e noi siamo orgogliosi di appartenere alla nazione di Dostoevskij. E non penseremmo mai di non essere nazionalisti perché lui lo era. Non siamo disposti a mettere in discussione Dostoevskij perché amava la Russia o, per esempio, per la sua avversità nei confronti dell’Occidente e del liberalismo. Dostoevskij lo odiava, e aveva le sue ragioni, che sono anche le nostre. Ho maturato l’identità russa nei miei studi, non solo limitandola al cristianesimo ortodosso e alle radici etniche slave, ma anche ingrandendola, seguendo la tendenza eurasiatica della filosofia russa. Abbiamo incluso i popoli orientali che erano all’interno dell’Impero Russo come tasselli preziosi di questa appartenenza. Abbiamo diversi livelli di comprensione della nostra identità. C’è la versione eurasiatica che è inclusiva, e c’è la versione nazionalista che è esclusiva. Entrambi i tipi abbracciano l’identità, ma in modo diverso. L’assetto inclusivo prende atto del fatto che non siamo solo un popolo – culturale e storico – ma anche una civiltà, la civiltà eurasiatica, fondata su un ordine gerarchico, sull’organizzazione verticale, così come sulla sacra monarchia, perché abbiamo considerato, anche nell’esperienza dell’Unione Sovietica, lo zar come un soggetto. Cos’è un soggetto? Nella logica europea, voi siete i soggetti, il singolo è il soggetto. Per noi non lo affatto così. Lo zar è il soggetto, il leader. E noi siamo una parte di questa figura. È una soggettività radicalmente diversa da quella dell’Occidente democratico. In noi c’è il vitalismo. C’è un’altra differenza. Non si tratta di un autoritarismo imposto dall’alto. È un autoritarismo richiesto dal basso. È una sorta di monarchia prima della monarchia. Non è una dittatura voluta forzatamente dal dittatore, ma è richiesta dalla maggioranza, perché è una richiesta per la presenza di un soggetto. Il nostro soggetto è olistico, non individualistico. Il sociologo francese Louis Dumont ha scritto un eccellente libro sulla gerarchia, “Homo hierarchicus”. Ha diviso tutti i tipi di organizzazioni politiche tra olistiche e individualiste. L’elemento fondamentale è l’identità, individuale o olistica. E noi apparteniamo al tipo di società in cui l’identità è collettiva. Olistica. Io, singolo, non sono l’uomo. Io sono una parte dell’uomo. La mia gente, il mio paese, il mio stato, il mio zar – o un leader – è l’uomo. Intendiamo in modo del tutto differente ciò che è umano. Per noi, i diritti umani sono i diritti dello zar, i diritti di Putin, non i miei, perché non sono io il soggetto. Sono una parte: la mia libertà dipende dalla libertà del mio paese e della mia gente. Non potrei mai essere individualmente libero se il mio paese e la mia gente fossero ridotti in schiavitù. È questa l’essenza del nostro appartenere. Il contrasto con l’Occidente, quindi, è doppio. Non siamo disposti a perdere la nostra identità, prima di tutto, e siamo pronti a difendere la nostra tradizione. Questo ci rende davvero differenti o, se vogliamo, nemici dell’Occidente, inteso come un progetto liberale e non come una civiltà, perché l’Occidente ha attraversato fasi di affermazione e negazione, problemi interni. Questo durante la Storia. Ma nell’oggi apparteniamo a due campi dell’umanità, separati. Una parte dell’umanità sta seguendo questa agenda occidentale, moderna, anglosassone e globalista: è il nuovo mondo che sta affiorando sotto gli occhi di tutti, un mondo globale con concezioni mutuate dalla Scozia, come il valore dell’individuo e della ragione, trasfuse nella Costituzione degli Stati Uniti. Da lì, il cerchio è cresciuto sempre più, e oggi la globalizzazione proietta il dogma dell’individualismo. Tutte le istituzioni, le forme di governo dell’Est, come anche dell’Africa e in tutto il mondo devono essere una ripetizione, un rifacimento, un copia e incolla della Gran Bretagna protestante. Max Weber l’ha spiegato molto bene: oggi sono tutti anglosassoni. Ecco, noi siamo contro tutto ciò. Siamo contro la comprensione anglosassone di ciò che è buono e ciò che è cattivo e ciò che è razionale e ciò che è irrazionale e così via. Questo è il grande gioco che Mackinder ha spiegato riferendosi a due tipi di civiltà, cioè la potenza del mare e la potenza della terra, come manifestazioni strategiche di due profonde ideologie: l’ideologia del progresso – il mare – e l’ideologia dell’eternità o del conservatorismo, rappresentato dal blocco continentale della Russia e, a suo tempo, della Germania. La Russia oggi è il baluardo che oppone l’identità collettiva alla globalizzazione, che è un’universalizzazione della missione protestante: è la vecchia sfida tra la potenza del mare e la potenza della terra, in un nuovo scenario.
The Economist: Queste due visioni, profondamente contrastanti, possono coesistere? Dugin: Potremmo coesistere pacificamente, o potremmo coesistere nella lotta. L’umanità può scegliere fra entrambe le soluzioni e la pace ha un senso solo quando c’è la possibilità di una guerra. A sua volta, la guerra ha una ragione ontologica quando c’è la possibilità di pace. Se non abbiamo pace, non abbiamo guerra. Se non abbiamo la guerra, non abbiamo pace. Le due cose sono fortemente legate. Per coesistere pacificamente dobbiamo obbligare l’altro a riconoscere la dignità umana dell’altra visione del mondo. Questo non accade sempre, c’è un problema molto sottile. Ad esempio, potremmo comprendere facilmente la verità del mondo anglosassone, della potenza del mare, e potremmo riconoscerla come una via possibile. Ma la globalizzazione non accetterebbe mai il diritto dell’altro ad esistere. Forse mi sbaglio, ma ho la sensazione che voi cerchiate di annientare, di distruggere quest’altra identità, la nostra, demonizzandola. Siete convinti che ci sia un progresso universale cui tutti dovrebbero obbedire. Di fronte a questa pretesa, siamo pronti a combattere e ad opporci. Se voi, potenza marina, o l’atteggiamento anglosassone o i globalisti fossero in grado di riconoscere il diritto dell’altro, di noi stessi, a conservare la nostra monarchia, la ‘dittatura’, la nostra comprensione dei diritti umani come i diritti di Putin, ecco, questo vorrebbe dire coesistere pacificamente. Vorrebbe dirci lasciarci soli. Ma non è così e non lo è mai stato. Avete sempre combattuto per imporvi sugli altri. Per noi, oggi, il confronto con l’Occidente è una sorta di battaglia finale escatologica. Se ci lasciate in pace, vi lasceremo in pace. Ma lotteremo per tenere viva e affermare la nostra identità. Sentiamo che l’Occidente sta cercando di distruggerla, di imporci una regola universale, i suoi principi di diritti umani e democrazia. Ci sta imponendo di accettare le sue regole e i suoi valori. The Economist: la Russia ha accettato la dichiarazione universale dei diritti umani. Dugin: è stato un errore. Siamo stati obbligati, e ora stiamo cercando di riparare questo danno fatto che risale ai tempi dell’Urss e di Eltsin. Stiamo ritornando al senso identitario, dopo essere stati obbligati a difenderlo in modo indiretto. The Economist: Per quale ragione la civiltà anglosassone ha economicamente più successo della civiltà eurasiatica? Dugin: Proprio perché l’economia è, per l’Occidente, il destino. Per noi, il destino è lo spirito. Se per te non c’è nulla di più elevato del valore materiale, allora è chiaro che in quello sei il migliore. The Economist: Posso chiederLe, onestamente, lasciando stare i nemici della Russia in Occidente, cosa succederebbe se andassi a Mosca e in tutta la Russia e facessi un sondaggio, chiedendo a tutti gli under quarantacinque, di sacrificare i loro benefici economici e i loro beni materiali per l’identità collettiva incarnata nel Presidente Putin, i valori eurasiatici e la Chiesa ortodossa? Come risponderebbero? Dugin: Dipende tutto da come si formulano le domande. ad esempio, se chiedesse: “A chi appartiene la Crimea”? Le risponderebbero che la Crimea è nostra e noi subiamo le sanzioni. E siamo felici di subire le sanzioni per questo? Sì. The Economist: In realtà la Russia non è colpita – non ancora, comunque – dalle sanzioni. I redditi sono tornati ai livelli del 2010, ma se dicessi alla gente che tornerai ai livelli del 1997, pensi che voterebbero per te? Dugin: Dipende tutto. Per noi, lo spirito conta molto più di quanto non conti per voi. Nella nostra identità, il fattore ideologico è quasi decisivo. Ma non riesco a credere che tutte le decisioni in Occidente siano solo legate al benessere materiale. Penso che ci sia anche una qualità morale, ma di un tipo diverso – relativista e liberale – che richiede sacrifici alla popolazione occidentale. Nella nostra situazione è lo stesso. Nessuno accetterebbe mai un danno al benessere e alla crescita della ricchezza, ma quando decidiamo, ad esempio, che l’Ucraina è nostra, allora ne comprendiamo a pieno la responsabilità. Per noi, è questo che realmente conta. E questa è la libertà o il diritto di Putin. È un nostro diritto. Putin non è un essere ‘estraneo’ che serviremo supinamente. Lui è noi stessi. Agisce per il nostro interesse. Fa esattamente ciò che siamo disposti a fare noi. Per noi non è una entità separata. È questo il concetto profondo del re sacro. Se dici: “Sacrificheresti il tuo benessere per i valori astratti della Chiesa ortodossa?” Nessuno ti direbbe di sì. Ma se chiedi: “A chi appartiene la Crimea?” È la stessa idea, la stessa domanda, messa da una diversa prospettiva. Da sociologo so esattamente come la risposta dipenda dalla formulazione della domanda. Prendendo uno stesso oggetto, ma formulando le domande in modi diversi, riceviamo risposte completamente diverse. Non credo che tutti sarebbero d’accordo con me. Penso che nessuno lo sarebbe, ed è normale. Solo i filosofi vedono la dimensione della verità. Si basa tutto sulla retorica, con quella puoi fare miracoli. Se chiedi alla nostra gente: “Sei un individuo. Vuoi progressi? Vuoi una società aperta? Vuoi essere ricco come in Occidente?”, tutti diranno di sì, compresi i patrioti russi. È ovvio. Ma quando arriva il momento della decisione, non siamo obbligati a sostenere Putin. Putin è obbligato a prendere la Crimea. Il segreto è questo: il patriottismo e la difesa dell’identità russa non sono imposti artificialmente alla nostra società. È logico che tu non possa capirlo, dal momento che consideri Putin un individuo che vuole usare la propria posizione per avere dei vantaggi, per neutralizzare le opposizioni. Questa è una posizione corretta dal tuo punto di vista. E noi lo capiamo, ha senso. Ma c’è l’altro lato che dovresti capire meglio. C’è una vista dall’alto e una dal basso. The Economist: Cosa succede quando Putin muore? Dugin: Apparirà un altro Re. Il Re è morto. Lunga vita al Re. The Economist: Come funziona il meccanismo? Come si evita il Tempo dei Guai? Dugin: E’ impossibile evitarlo. È una costante della nostra storia e sarà sempre così. È un processo ciclico e non si può semplicemente non incappare negli errori del passato. Si tratta di qualcosa più grande di noi. Putin morirà, ci sarà un periodo di crisi, e poi comparirà, prima o poi, un nuovo Re. Tutto si ripeterà. The Economist: Deve essere piuttosto deluso dal signor Putin, perché l’Impero russo non è ancora tornato, tranne piccoli pezzi di piccole repubbliche. Dugin: Sì, sono molto deluso. Per me, Putin è solo un attore che interpreta il ruolo di Zar. Non credo in Putin, ma nello zar eterno che ha molti nomi e molte forme. Potrebbe chiamarsi Presidente, leader, zar, re, imperatore. La verità è che essere zar è una funzione. Putin ha svolto questa funzione molto meglio di Eltsin e Gorbaciov. Ma è in ritardo ancora su molti aspetti. E questo non è realismo, come pensa lui, ma codardia. The Economist: Quindi Putin non è il vero zar? Dugin: Nessuno è il vero zar. Tutti interpretano solo il ruolo dello zar. Il vero zar per noi è Cristo. Tutti gli altri sono dei rappresentanti, diciamo. The Economist: come riconosci lo Zar? Dugin: Dalla volontà. Dallo spazio. Lo zar è intimamente legato allo spazio. Per noi, lo spazio è differenza. Il vero zar è chi riesce a creare unità dalle differenze. Chi raccoglie e non perde. È un processo di integrazione. È una specie di segno dello zar. Lo zar non distrugge, costruisce. Putin ha frenato la spaccatura e la caduta della Federazione Russa. Ha iniziato a ricostruire passo dopo passo. È molto più vicino allo zar di quanto lo fossero Eltsin e Gorbaciov per questa e molte altre ragioni. Ma prima di tutto, questo è il primo segno: vedere che qualcosa inizia a crescere. Allo stesso tempo, lo zar dovrebbe difendere la nostra identità e difendere l’impero, non indebolirlo. Ciò che è interessante è che molti di voi considerano strumentale la nostra Chiesa, che seguendo gli ordini dello zar. Eppure uno dei teorici dello zarismo, Joseph Volotsky, ha affermato che se lo zar nega o indebolisce il suo regno, dovrebbe essere ucciso. Volotsky di uno dei Santi della Chiesa russa. Il regno è molto più importante dello zar. Il principio è molto più importante della persona, per noi. Putin ha frenato la caduta, non ci ha ridestati. Questo trascende i suoi limiti. Lui non è un salvatore. Ha solo intenzione di riparare. È un manager, blocca la crisi. E lo sta facendo in modo eccellente, ma ha dei limiti. Agisce come se fosse eterno, non crede in qualcosa che esiste dopo la sua fine: non ha una chiave per il futuro. Questo è un vero problema. Stiamo entrando ora nel Tempo dei Guai, non dopo la sua morte, perché per Putin si sta avvicinando la fine, da un punto di vista legale. E questo non l’ha potuto risolvere. Abbiamo bisogno di una nuova tappa e Putin non sta funzionando per il futuro, sta pensando solo al presente. È un ottimo rappresentante dello zar in un periodo di transizione, ma non è sufficiente per il futuro. È abbastanza solo per il presente. Il suo sistema è fragile. È basato sulla sua personalità, e questo è quasi un crimine contro il regno, perché dovrebbe consolidare la nostra identità, istituzionalizzare il regno. The Economist: Sta dicendo che dovrebbe iniziare una monarchia? Dugin: non esattamente. Non tanto una monarchia formale. Direi che dovrebbe investire sull’ideologia dell’identità, invece di pensare solo al lato pragmatico. Dovrebbe essere più serio e più profondo. The Economist: come si istituzionalizza il regno? Dugin: Prima di tutto, educando. Abbiamo conservato l’educazione in modo liberale. Abbiamo una formazione metà-sovietica e metà liberal. Educare è preparare la mente, e il regno zarista uno stato mentale. Non è solo una forma sociale di governo. The Economist: Per avere il regno zarista, lo zar va incoronato? Dugin: Dobbiamo almeno andare in questa direzione. L’apparizione, la manifestazione dello zar è un dono di Dio. È una sua risposta alla volontà del popolo. È un dono. Ma non possiamo nominare lo zar. Potremmo pregare per lui, dovremmo essere tutti concentrati. L’educazione dovrebbe preservare e favorire tutto ciò. Con Putin non è andata sempre così. Non ha fatto nulla nell’educazione, che è rimasta metà sovietica, metà liberale, copiata dall’Occidente. Un miscuglio di incoerenza. Lo stesso vale per la nostra cultura. La nostra cultura è un’imitazione della cultura occidentale e liberale con un frammento di pura propaganda politica, mal fatta. Questa è solo un simulacro, non una preparazione per il regno dello zar. Così non si ritorna alla nostra identità. Si ragiona troppo pragmaticamente e si pensa troppo poco al sacro. Putin rimane nella sua posizione, non sacrifica abbastanza attenzione, tempo e la sua forza vitale per questo problema. Si è mosso in questo senso solo nel suo ultimo mandato, ma ha perso diciassette anni per preparare il futuro. E ora non ha tempo per prepararlo. Ci aspetta un periodo buio e travagliato. The Economist: Quanto spesso parla con Putin? Dugin: Ci sono alcune domande a cui non mi piace rispondere. The Economist: quali dovrebbero essere i confini della Russia? Ha parlato di convivenza pacifica. Dugin: Dovrebbero crescere, continuare a crescere. The Economist: Quella non è pacifica convivenza. Dugin: Dovrebbero continuare a crescere fino al momento in cui non possono più espandersi. Abbiamo conosciuto momenti in cui non siamo riusciti a crescere, siamo caduti, e poi, ogni volta, cresciuti di più. Il nostro Impero è un cuore pulsante. Penso che l’Eurasia sia il nostro limite naturale. Non toccheremo l’Inghilterra o l’Europa occidentale. The Economist: Quindi giocate lealmente con l’Est Europa? Dugin: Sì, quella è l’Eurasia. Non possiamo conquistare l’Europa orientale adesso, è fuori discussione, anche nella mia visione imperialista. Sono realistico. The Economist: Quindi la Polonia cattolica è fuori? Dugin: Sì, fuori. The Economist: Kazakhstan? Dugin: Fa parte dell’Unione Eurasiatica. The Economist: Su base volontaria? Dugin: Assolutamente su base volontaria. Un impero è creato in una condizione. Raggiungere i nostri obiettivi in modo pacifico è molto meglio di una conquista. Questa volta non abbiamo il potere, non abbastanza, per invadere qualcuno. Siamo obbligati a usare la pace e l’adesione volontaria al nostro progetto. Ma vorrei sottolineare che ci sono sempre più amici intorno a noi, e quando ci apriamo e combattiamo contro il globalismo – non solo per i valori nazionali russi – allora riceviamo un aiuto notevole da parti e forze molto diverse del mondo. Questo è molto importante. Quando ci dichiariamo una forza universale, non solo una forza nazionalista, allora acquisiamo sempre più amici. Siamo di fronte ad una nuova svolta, molto interessante. Dopo la Brexit, forse la Gran Bretagna sarà dalla parte opposta. |