Scritto per Radiopopolare.it http://www.china-files.com 05-01-2016
Hong Kong: Il mistero dei librai scomparsi di Gabriele Battaglia
Cinque uomini collegati alla stessa libreria di Causeway Bay sono scomparsi nelle scorse settimane. Dopo l'ultimo caso, si sospetta fortemente la "longa manus" di Pechino, che colpirebbe le voci dissenzienti dell'ex colonia britannica. E qualche volta perfino il gossip.
È ancora una vicenda oscura, ma è lecito pensare che si tratti dell'ennesimo, preoccupante, segnale sul fronte della libertà di parola e dei diritti umani. Cinque uomini legati alla stessa libreria di Hong Kong - Causeway Bay Bookstore – sono scomparsi nelle ultime settimane. L'ultimo è il libraio Lee Bo, 65 anni: si è messo brevemente in contatto con la moglie da un numero di telefono di Shenzhen per dire che sta collaborando a un'indagine e che non tornerà a casa tanto presto. Il problema è che Shenzhen è Cina continentale, mentre Hong Kong ha statuto di zona amministrativa speciale dal 1997, quando ci fu la restituzione dell'ex colonia britannica alla Cina. Ha un proprio sistema giudiziario indipendente, separato da quello della Repubblica Popolare. Nessuno può quindi in teoria arrestare qualcuno a Hong Kong e portarlo in Cina.
Tutto lascia quindi pensare a una “extraordinary rendition” in versione cinese, non contro sospetti di jihadismo, ma contro “colpevoli” di libertà di parola. Causeway Bay Bookstore è infatti una libreria controllata da Mighty Current Media, un editore che spesso e volentieri pubblica libri critici nei confronti dei leader di Pechino, con retroscena sulla loro vita personale. Lee Bo, oltre a essere libraio è socio della casa editrice. Due degli altri scomparsi erano stati visti per l'ultima volta a Shenzhen, dove vivono le loro mogli; uno si sarebbe invece volatilizzato proprio a Hong Kong, come Lee; e un altro, che è cittadino svedese, sembra fosse addirittura a Pattaya, in Thailandia, dove possiede una casa per le vacanze. Si chiama Gui Minhai, è socio di Mighty Current Media ed è scomparso da ottobre.
Albert Ho Chun-yan, deputato del Partito democratico di Hong Kong, dice di avere sentito indiscrezioni secondo cui la casa editrice era in procinto di lanciare un libro sulla relazione tra Xi Jinping e una ragazza, risalente all'epoca della Rivoluzione Culturale, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. L'attuale presidente cinese si trovava allora nella provincia dello Shaanxi in quanto suo padre Xi Zhongxun, rivoluzionario della prima ora, era stato incarcerato dopo essere caduto in disgrazia. Si tratta di una fase oscura della vita di Xi, che girava al largo da Pechino, anche perché privo di protezione. Nell'attuale agiografia ufficiale, che tende a descrivere un percorso lineare e “armonioso”, si tralasciano puntualmente i dettagli di quel periodo e si preferisce costruire il mito di Xi Jinping figlio di uno dei Ba Lao, gli “otto anziani” fedelissimi di Mao Zedong. Ma la storia cinese – e quella di Xi – lineare non fu.
Ricordiamo che in Cina, anche in periodi più rilassati dell'attuale dal punto di vista del controllo censorio, non è mai consentito attaccare direttamente i leader o rivangare nel loro passato al di fuori dalla narrativa ufficiale. Con Xi Jinping, i margini si sono ristretti ulteriormente. Nel 2012, due reportage di Bloomberg e del New York Times, rispettivamente sulle ricchezza familiari dello stesso Xi e dell'allora premier Wen Jiabao, costarono alle loro testate l'oscuramento del sito in territorio cinese e parecchi guai al momento della concessione dei visti ai giornalisti. Oggi, forse, ci troviamo di fronte alla persecuzione per reato di gossip, con tanto di sconfinamento territoriale ed extragiudiziale.
Se le notizie fossero confermate, assisteremmo infatti a un nuovo capitolo di quella “normalizzazione” di Hong Kong contro cui scese in piazza anche il cosiddetto “movimento degli ombrelli”, oltre un anno fa. Sempre più, la formula “un Paese, due sistemi” con cui si sancì l'handover del 1997, è letta a Pechino con l'accento sulla prima parte mentre a Hong Kong si enfatizza la seconda. Chi è preso in mezzo è il chief executive – letteralmente “amministratore delegato” - dell'ex colonia britannica, Leung Chun-ying, considerato uomo di Pechino, di cui il movimento di un anno fa chiedeva le dimissioni. Ha dichiarato che la libertà di espressione e di stampa sono garantite dalla legge di Hong Kong e che nessuna “agenzia al di fuori di Hong Kong” ha autorità per far rispettare tale legge. La sua posizione sembra sempre più scomoda.
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