Europa Quotidiano
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23 agosto 2014

La guerra di Obama all’Isis. Storia di una strategia
di Lorenzo Biondi

È passato senza grande clamore il primo anniversario della strage di Ghouta, periferia di Damasco. Quella delle armi chimiche, che stava per innescare una reazione militare degli Stati Uniti. Chi la ricorda, oggi, lo fa per un motivo. Attaccare Barack Obama, le sue scelte dell’ultimo anno. Che avrebbero portato al dilagare dello Stato islamico in Siria e di là dal confine, in Iraq. L’adagio suona così: se l’America fosse intervenuta, le cose sarebbero andate diversamente. Assad sarebbe caduto, i ribelli “moderati” avrebbero avuto la meglio, l’ascesa dell’Isis sarebbe stata interrotta sul nascere. È un adagio suonato anche da interpreti autorevoli: da ultima Hillary Clinton, impegnata a tracciare un solco tra sé e Obama in vista della candidatura presidenziale.

Ci sono almeno due obiezioni possibili a questa tesi. Sulla prima obiezione si sta sviluppando un consenso molto diffuso tra gli esperti di cose mediorientali: anche se Obama avesse deciso di bombardare la Siria, l’intervento americano non sarebbe stato risolutivo. Al contrario – scriveva il 19 agosto Christopher Phillips di Chatham House, think-tank britannico non certo tenero nei confronti di Assad – «la Siria ricorda il genere di guerra civile che un intervento esterno può solo prolungare, piuttosto che risolvere». Pensare che le bombe americane contro Assad avrebbero imbrigliato l’Isis è illusorio.

Siamo nel campo delle ipotesi: cosa sarebbe successo se… La seconda obiezione è fattuale. Si contesta a Obama di non avere una strategia per il Medio Oriente. Di non aver previsto l’emergenza dello Stato islamico. Di essere saltato da un crisis management all’altro, costretto a ribaltare decisioni prese in passato. Non è così. Le vicende dell’ultimo anno sono costellate di sconfitte del presidente americano in Medio Oriente, impossibile negarlo. Ma la strategia di Obama – che piaccia e meno – esiste, eccome. È la strategia che ha guidato tutto il secondo mandato obamiano, quello con John Kerry alla guida della diplomazia americana. E nella sua forma attuale è maturata proprio un anno fa, dopo quel massacro in un sobborgo di Damasco.

Bisogna allora tornare a quel 21 agosto del 2013, ai mesi precedenti e alle settimane successive. Dal momento il cui John Kerry era entrato in carica come segretario di stato, all’inizio di febbraio, s’era messo al lavoro a un’ipotesi ambiziosa: una conferenza di pace sulla Siria, che riprendesse il lavoro fatto l’anno prima a Ginevra, ma portasse al tavolo tanto i ribelli quanto Bashar al Assad, i sauditi e l’Iran, sotto l’egida dell’America e della Russia. La chiamano Ginevra 2, la data d’inizio viene rinviata più volte, ma in estate pare che la convocazione sia ormai imminente.

L’attacco chimico scombina tutti i piani. Molte dita si puntano immediatamente contro il governo di Bashar al Assad. Per Obama è la «linea rossa», il punto di non ritorno verso un intervento. Il presidente sa di dover mantenere la parola data. Ma è riluttante. I vertici del Pentagono – il segretario alla difesa Chuck Hagel e il capo di stato maggiore Martin Dempsey – sono perplessi. Quale sarebbe l’obiettivo dell’attacco? Distruggere un arsenale chimico, senza soldati sul terreno, è una missione improba. I bombardamenti mirati sarebbero la prima mossa, ma dove si andrebbe a finire? L’amministrazione ha sempre escluso di voler mandare altri soldati a combattere in Medio Oriente. Si può pure lavorare a un’ipotesi massimale: rovesciare Assad. Ma cosa succede dopo la caduta del raìs?

Anche il presidente è perplesso. Un attacco stravolgerebbe la strategia del negoziato perseguita fino a quel punto da lui e da Kerry. Soprattutto, sarebbe una marcia indietro colossale rispetto a una delle bussole del secondo Obama: non ripetere gli errori del passato. Non ripetere l’errore di Bush in Iraq, ma neppure l’errore commesso nel 2012 in Libia: distruggere a suon di bombe l’infrastruttura istituzionale e militare di un paese, senza preoccuparsi del dopo. Lasciando il campo a gruppi terroristi organizzati (come in Iraq dopo il 2003, coi sadristi) o a bande di predoni come in Libia. Faticando a trovare un partner affidabile per il governo del paese (vedi alla voce Maliki).

Obama non è isolato. C’è mezzo G20 a chiedergli di pensarci bene prima di mandare alle ortiche Ginevra 2. C’è papa Francesco. C’è pure la Gran Bretagna, alleato storico, dove un voto del parlamento blocca la foga interventista di David Cameron. La svolta arriva il 9 settembre. Rispondendo a una domanda in conferenza stampa John Kerry ammette che, in linea puramente teorica, se Assad consegnasse le sue armi chimiche non ci sarebbe bisogno di bombardare.

La Russia di Vladimir Putin non si lascia perdere l’occasione per evitare che la furia americana si scateni sul suo alleato siriano. Preme su Assad, che accetta la proposta. Il 14 settembre si arriva all’accordo per la distruzione dell’intero arsenale chimico di Damasco. Il percorso verso Ginevra 2 può ripartire. Obama rientra nei binari della strategia decisa a inizia mandato.

Nel frattempo però è la situazione sul terreno, in Siria, che sta cambiando. Tra la primavera e l’estate del 2013 una milizia jihadista è emersa sulle altre. È lo Stato islamico dell’Iraq e del levante, originariamente branca irachena di al Qaeda, cresciuta dall’altra parte del confine e trapiantata in Siria grazie alla guerra civile. L’Isis ha strappato alle altre fazioni ribelli la città simbolo della rivolta, Raqqah, e sta spandendo il suo controllo su una vasta regione nota comeJazeera.

L’intelligence americana ha individuato la minaccia dell’Isis. Nel momento in cui si riavvia il percorso verso Ginevra 2, gli Stati Uniti pongono la questione ai ribelli con cui dialogano e ai loro alleati: Turchia e Arabia Saudita in primis. Qualunque soluzione per la Siria deve affrontare il pericolo rappresentato dall’Isis.

Torniamo alla strategia obamiana. Il presidente democratico ha un’idea chiara sulla politica globale, e mediorientale. La soluzione delle questioni interne di un paese spetta ai cittadini di quel paese – fatta salva la difesa degli interessi americani. Con una conseguenza rispetto al caso siriano: non si può sconfiggere l’Isis senza l’aiuto dei siriani. Ci vuole l’aiuto dei ribelli “moderati”, certo. Ma ci vuole anche l’esercito regolare di Damasco. Fedele al raìs. I ribelli moderati dovranno trovare un compromesso con Assad, almeno nel breve periodo. Ci vuole un governo di unità nazionale siriano, coi rappresentanti dei ribelli e quelli del blocco di potere legato al partito Baath. Per lavorare a una transizione politica al dopo-Assad. Ma anche per fronteggiare insieme lo Stato islamico.

Nei giorni scorsi la stampa internazionale scriveva che «le potenze mondiali vedono Assad come un baluardo contro l’Isis» (così Haaretz). Non è una novità, non dai tempi di Ginevra 2.

La strategia di Obama per Ginevra, però, è stata sconfitta. L’accordo tra ribelli e Assad non si realizza mai. I primi chiedono garanzie sull’allontanamento del presidente siriano, prima di qualsiasi passo avanti politico. I secondo vogliono rinviare la transizione politica a dopo la sconfitta dei «terroristi», o alle calende greche. Si tengono due giri di negoziati, senza esito. Il terzo round di trattative, previsto sulla carta, non ha ancora visto la luce.

Il percorso politico si ferma alla metà di febbraio del 2014. Nel frattempo la leadership internazionale di al Qaeda ha “scomunicato” Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’Isis, che ormai agisce in modo del tutto indipendente. Lo Stato islamico sta consolidando le sue posizioni in Siria, soprattutto a scapito delle altre formazioni ribelli. All’inizio di giugno le bandiere nere lanciano la loro più grossa offensiva verso sud dall’inizio della guerra. L’esercito iracheno è messo in fuga, l’opinione pubblica globale scopre quello che di lì a poco si proclamerà nuovo Califfo.

La strategia di Obama, nel frattempo, non è cambiata. Si è adeguata al mutare della situazione, ma rimanendo fedele alla sua ispirazione originale. La destituzione di Assad, per il momento, non è in agenda. La ricerca di un partner locale per affrontare l’Isis non si è fermata: dopo i ribelli “moderati” siriani si guarda ai peshmerga curdi. L’obiettivo è evitare il collasso dello stato iracheno (e la secessione del Kurdistan), così come si voleva evitare il collasso dello stato siriano. Il tentativo di dialogare su due fronti – con gli alleati storici, sauditi e turchi, così come con l’ex nemico iraniano – è ancora vivo. La strategia di Barack Obama ha avuto una sua coerenza. Se avrà successo, è un’altra questione.

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