L'Huffington Post  
12/12/2014

I semi dell'Isis nel carcere di Camp Bucca. Così al-Baghdadi e gli altri concepirono Daesh sotto gli occhi degli Usa
di Giulia Belardelli

Il piano per costruire lo Stato islamico è stato concepito dal suo futuro leader, Abu Bakr al-Baghdadi, insieme ad altri capi jihadisti proprio sotto il naso degli americani, nel carcere militare statunitense di Camp Bucca, in Iraq. “Il campo era l’ambiente ideale per pianificare”, ha spiegato al Guardian un jihadista il cui nome di battaglia è Abu Ahmed. “Nel 2004 avevamo riconosciuto al-Zarqawi (a cui succederà al-Baghdadi, ndr) capo della jihad. Quando ci hanno liberato, è stato facile ritrovarsi: ci eravamo scambiati indirizzi e numeri di telefono scrivendoli sugli elastici delle mutande”.

Il racconto di Abu Ahmed – che riprende e rafforza un’inchiesta pubblicata nel corso dell’estate dalla rivista americana Mother Jones – solleva ancora più dubbi sui presunti “risultati” ottenuti dalla Cia con il suo programma antiterrorismo post 11 settembre. Se il risultato di carceri come Camp Bucca – per non nominare fabbriche dell’orrore come Abu Ghraib – è stato quello di radicalizzare i detenuti e spingerli a un odio ancora più totale verso l’Occidente, il mantra difensivo utilizzato dal direttore della Cia John Brennan – “abbiamo servito l’America”- non ha nessuna ragione d’esistere.

Secondo il racconto che Abu Ahmed ha fatto al Guardian, il futuro ‘califfo’ di Daesh è riuscito a “portare avanti la sua strategia per dare vita allo Stato islamico” proprio “sotto il naso” degli americani. Il jihadista, divenuto poi un alto comandante dell'organizzazione, ha anche sottolineato come proprio la prigione americana abbia offerto ai ribelli sunniti “la straordinaria opportunità di ritrovarsi tutti insieme […]. Altrove sarebbe stato terribilmente pericoloso; lì non solo eravamo al sicuro, ma ci trovavamo solo a pochi metri di distanza dall’intera leadership di al Qaeda”.

"Avevamo tanto tempo per stare seduti e pianificare. Era l'ambiente perfetto”, ha continuato. “Concordammo che ci saremmo ritrovati una volta usciti di prigione. E il modo per rimanere in contatto fu semplice. Scrivemmo i nostri dati sull'elastico delle mutande. Le persone che ritenevo importanti erano scritte sull'elastico bianco, con i loro numeri di telefono e le destinazioni del loro villaggio. Entro il 2009, molti di noi erano tornati a fare quello che facevano quando erano stati arrestati. Ma questa volta lo stavamo facendo meglio".

Secondo l'analista Hisham al-Hashimi, analista a Baghdad citato dal Guardian, il governo iracheno stima che 17 dei 25 principali leader dell’Isis oggi attivi in Siria e Iraq sono stati detenuti nelle prigioni Usa tra il 2004 e il 2011.

Abu Ahmed racconta anche che, all’inizio della detenzione a Camp Bucca, al-Baghdadi era un jihadista tra tanti. “Un tipo cattivo, ma non tra i peggiori”, conferma James Gerrond, che nel 2009 era un ufficiale della Us Air Force, responsabile di uno dei blocchi dove erano rinchiusi i detenuti. Che conferma la percezione, già allora, del rischio di alimentare un vivaio di terroristi più determinati che mai. “Molti di noi avevano questo timore: non gestivamo solo una prigione, avevamo creato una pentola a pressione per gli estremisti”.

Per Abu Ahmed, i leader della jihad si sono progressivamente radicalizzati. Se Abu Musab al-Zarqawi, leader della jihad in Iraq dal 2004, "era molto intelligente, il miglior stratega che lo Stato islamico abbia avuto", il suo successore, "Abu Omar al-Baghdadi era spietato", ha ricordato Abu Ahmed. Zarqawi venne ucciso nel 2006, mentre Abu Omar nel 2010. "E Abu Bakr al-Baghdadi è il più assetato di sangue di tutti", ha continuato, perché "dopo la morte di Zarqawi, le persone a cui piaceva uccidere più di lui sono diventate molto importanti nell'organizzazione. La loro comprensione della sharia e dell'umanità era da quattro soldi. Loro non comprendono il tawhid (il concetto dell'unicità di dio). Il tawhid non doveva essere forzato dalla guerra". Nonostante i dubbi, Abu Ahmed rimane un membro dell'Isis, anche per i rischi che comporterebbe una sua eventuale fuga, ha sottolineato il Guardian.

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