Relazione Conclusiva Della Tavola Rotonda Su
“Interventi Nonviolenti Nei Conflitti Armati All'estero”
Tenutasi A Pisa Il 15 Novembre 2009
All'Interno Del Seminario Organizzato Dai Berretti Bianchi
Nel Decennale Della Loro Fondazione
Relatore Alberto L'Abate[1]
Il compito che mi è stato dato è quello di fare una sintesi e di trarre delle conclusioni dai lavori della giornata di domenica, che si inseriva in un seminario di due giorni (14-15) organizzato dall'Associazione Onlus Berretti Bianchi nel decennale della sua fondazione. All'organizzazione del seminario hanno collaborato il Comune di Pisa, dando il suo patrocinio all'iniziativa e mettendo a disposizione due sale della “Casa della Città Leopolda”; il CISP ed il corso di laurea in Scienze per la Pace dell'Università di Pisa, dal quale sono venuti molti degli studenti che hanno anche partecipato al training su “Costruire una pace in Israele e Palestina: passato e futuro di Ebron” tenuto il pomeriggio del 14 dal dott. Yoga Patti, mediatore professionale; e l'associazione Servas, sezione pisana, che ha offerto ospitalità gratuita a tutti i partecipanti al seminario che venivano da lontano. La serata del 14 era stata animata da una toccante rappresentazione del gruppo teatrale “Chili 5 di Sale” di Reggio Emilia su “Gaza Street: il senso della guerra”, liberamente tratta da “Le rondini di Gerusalemme” di I. Souss. In questa lo scenario di sfondo è fatto da casse di legno, mosse continuamente dai due attori, ma che, alla fine, si chiuderanno in forma di muro separando definitivamente i due personaggi, una ebrea ed un palestinese, che pur in passato si erano amati. Hanno recitato, magistralmente, Fabiana Bruschi, Presidente nazionale dei Berretti Bianchi, ed Andrea Anselmi, del comitato direttivo della stessa organizzazione..
L'incontro del 15 è stato introdotto da Silvano Tartarini, segretario nazionale dei Berretti Bianchi, che ha ricordato la nascita dell'associazione ed i suoi scopi principali: lavorare per il superamento delle guerre attraverso, in particolare, l'organizzazione di ambasciate di pace che permettano di collegare tra di loro i gruppi attivi, nei vari paesi, per la nonviolenza e la pace con lo scopo di aiutare la trasformazione nonviolenta dei conflitti, e di premere per il riconoscimento di Corpi Civili di Pace che operino per la prevenzione dei conflitti armati, per l'interposizione nonviolenta, e per la riconciliazione degli ex nemici dopo i conflitti. Ha ricordato poi brevemente gli interventi fatti sia nella ex-Jugoslavia, che in Israele-Palestina. Ha poi portato i saluti del CISP (Centro Interdipartimentale Scienze per la Pace) dell'Università di Pisa il suo presidente Prof. Pierluigi Consorti. Il CISP ha promosso e gestisce il Corso di Laurea in Scienze per la Pace, sia triennale che specialistico, dell'Università di Pisa, quest'ultimo unico in Italia. Il Prof. Consorti ha sottolineato come la scarsa attenzione politica su questi temi rischi di far chiudere questi corsi, in particolare quello triennale, ma come queste attività, comprese le 21 pubblicazioni promosse dal CISP, tendano a portare avanti nel nostro mondo una sfida culturale importante per fare capire cosa significhi realmente lavorare per la pace, e l'importanza di un lavoro professionale in questo settore. Ha preso poi la parola la dottoressa Maria Luisa Chiofalo, assessora alla Pace ed alla Cultura della legalità del Comune di Pisa. Nel portare all'assemblea i saluti non formali della sua giunta e nell'augurare al seminario un buon successo, ha parlato dell'impegno del Comune a sostegno del CISP, e per la persistenza del corso di laurea di Scienze per la Pace, ed in particolare le iniziative su “Pisa città di Pace” dedicata quest'anno a sviluppare il tema : “Crisi economica e costruzione della pace” all'interno del quale sarà dedicata una giornata ad approfondire il tema della violenza sulle donne ed un'altra a quella dei diritti dell'infanzia. L'impegno dell'amministrazione, che collabora con i comuni vicini, si è profuso in particolare a sostenere i diritti umani ed alla diffusione di una cultura di pace e della capacità di gestione dei conflitti anche nelle scuole. Ha poi accennato al lavoro fatto per integrare i bimbi Rom nella scuole pubbliche ed anche l'adesione e la partecipazione di molti consiglieri comunali all'iniziativa “100 città per la pace in Medio Oriente”.Infine, augurando un buon lavoro al seminario, ha poi presentato le attività del Servas una delle dirigenti nazionali di questa organizzazione, la quale ha contribuito attivamente all'incontro grazie all'ospitalità gratuita offerta dalle famiglie della sezione pisana. Il Servas, che nella lingua esperanto significa “servizio”, è definito anche “porte aperte” in quanto ha lo scopo di aiutare le persone, specie, ma non solo, i giovani, a viaggiare ed a conoscere e comprendere altre culture ed altri paesi. E' stato fondato 60 anni fa, e dal 1972 è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, e trae la sua ispirazione da una frase di Gandhi: “Con ogni vera amicizia rafforziamo le basi su cui poggia la pace in tutto il mondo”. I membri del Servas, ormai arrivati a svariati milioni con sezioni in moltissime nazioni del mondo, si dividono in tre categorie: 1) i “day host” (ospiti giornalieri) che si offrono di aiutare i viaggiatori provenienti da altre sezioni, e da altri paesi, recanti una lettera di accreditamento, a conoscere la loro città ed il proprio ambiente magari invitandoli anche ad un pranzo o un tè presso la loro casa; 2) le vere e proprie “porte aperte” che offrono ospitalità anche notturna, normalmente solo fino a tre giorni, ma con possibili eccezioni concordate; 3) i simpatizzanti che partecipano ad iniziative particolari, come incontri di studio, visite a siti turistici, pranzi o cene di conoscenza reciproca.
Dopo queste presentazioni e saluti si inizia la tavola rotonda vera e propria sul tema “Interventi nonviolenti nei conflitti armati all'estero” che è presieduta dalla Presidente nazionale dei Berretti Bianchi Fabiana Bruschi. A questa tavola partecipano svariate associazioni italiane che intervengono all'estero in zone di conflitto violento, queste sono: i Berretti Bianchi stessi, nella persona di Maria Carla Biavati; l'Associazione per la Pace, con Farshid Nourai; il Tavolo Trentino con il Kossovo, con Mauro Cereghini; le PBI (Peace Brigades International- sezione italiana), con Pasquale Dioguardi, il “Ponte per........”, con Martina Pignatti Morano; l'Associazione Operatori di Pace della Campania e l'IPRI-Rete CCP, con Gianmarco Pisa. Il comitato direttivo dei Berretti Bianchi, nel convocare questo seminario, aveva deciso di chiedere ai convenuti di rispondere a cinque domande, che erano state fatte conoscere in anticipo, sui problemi che possono sorgere nell'iniziare e portare avanti questi interventi. Vedremo le domande, una per uno, con le risposte emerse nel dibattito. Al sottoscritto era stato dato il compito di trarre le conclusioni di questo incontro, nel farlo cercherò comunque anche di aggiungere le risposte basate sulla mia stessa esperienza di intervento in Iraq, prima della prima guerra del Golfo, ed in Kossovo, prima e dopo la guerra..
1) La prima domanda posta era: Qual'è la molla che ci induce a partire per intervenire nella gestione di un conflitto?
Da parte di tutti gli intervenuti è stata sottolineata l'importanza degli interlocutori locali che spesso lanciano “un grido di aiuto” di fronte al quale è necessario non essere indifferenti. Questo “grido” è stato declinato come“chiamata, o domanda legittima” che richiede, da parte delle nostre organizzazioni, un ascolto attivo, uno studio approfondito del problema (qualcuno ha definito questo come “un adottare quel conflitto”), una seria analisi della situazione locale, ed anche una approfondita valutazione sulla nostra possibilità di portare in loco qualche cosa di nuovo che aiuti realmente una trasformazione nonviolenta del conflitto. Qualcuna delle organizzazioni (B.B., IPRI-Rete CCP, PBI) richiede anche la condivisione tra noi e loro di una teoria ed una pratica della nonviolenza. Ma non tutte le organizzazioni hanno richiesto questo come condizione iniziale. Le PBI lo richiedono e richiedono anche che la controparte del gruppo con il quale loro vanno ad operare sia per lo meno democratica. Invece il Tavolo Trentino (a cui fa capo anche l'intervento in Kossovo dell'Operazione Colomba) è intervenuto inizialmente solo con aiuti umanitari, cercando di rispondere al bisogno reale delle popolazioni locali, anche se queste non si erano espresse, di essere aiutate per poter uscire dal loro stato di deprivazione e di miseria. Solo dopo un certo tempo di attività nella zona il Tavolo ha cominciato ad inserire tra i suoi obbiettivi l'ascolto attivo reciproco e la riconciliazione tra le parti prima coinvolte in una guerra. Ma alla domanda della presidente della sessione del come mai a certe situazioni si risponde ed ad altre no (specie in Africa dove intere popolazioni sono lasciate in stato di completo abbandono) la risposta è stata abbastanza univoca: la trascuratezza da parte della politica, soprattutto quella del nostro paese, per questo tipo di interventi e, di conseguenza, la mancanza di finanziamenti . E' stato sottolineato infatti che anche i soldi della Legge 180/1992, detta anche la Legge Sant'Egidio, nata per aiutare il lavoro di mediazione svolto in certi conflitti da questa organizzazione, che prevedeva 3000 miliardi di lire l'anno per questo tipo di intervento, vengono utilizzati per la maggior parte per interventi militari definiti di pace ed umanitari. Il rappresentante delle PBI ha fatto notare che per questa organizzazione ogni volontario (copertura delle spese di trasporto, vitto, alloggio ed assicurazione, più un modesto pocker money mensile) costa diverse migliaia di Euro l'anno, e quindi questi tipi di intervento (come l'accompagnamento giorno e notte di persone minacciate dagli squadroni della morte, come Rigoberta Menciù, premio Nobel per la Pace, che li ha ringraziati per averle salvata la vita), se non ci sono adeguati finanziamenti non si possono portare avanti . A questo proposito mi è riaffiorato un ricordo rispetto alla nascita in Italia delle Rete per la prevenzione dei conflitti armati, promossa a livello internazionale da “International Alert” ed alla quale avevano aderito oltre 300 ONG di vari paesi. L'incontro di fondazione della sezione italiana si tenne a Roma, nella sede della Comunità di Sant'Egidio, e vi parteciparono molte ONG italiane impegnate in interventi all'estero. Io ero lì in rappresentanza della Campagna Kossovo, con la quale lavoravo già da un certo tempo, e dato che avevamo appena dato vita alla rete italiana parlai del problema del Kossovo, delle possibili vie di prevenzione del conflitto, e della necessità di un appoggio al nostro lavoro da parte delle altre ONG presenti. Ma la delusione fu grande: dissero che per la prevenzione dei conflitti armati non c'erano finanziamenti e che perciò non si sentivano di impegnarsi con noi. Solo più tardi la Comunità di Sant'Egidio si impegnerà in questo senso, ma senza concordare il suo lavoro con il nostro, e questo indebolirà notevolmente il possibile risultato. E molte di quelle organizzazioni presenti si impegneranno, dopo la guerra, nel lavoro di ricostruzione perché per questo lavoro sono stati profusi molti soldi. Ma se per operare bisogna aspettare che la guerra avvenga, e non si opera per la prevenzione dei conflitti armati, questo rende le ONG complici della stessa guerra.
Il sottoscritto, nel concludere, ha ricordato che in un convegno internazionale organizzato dalla sua associazione (IPRI-Rete CCP) con la Provincia di Bolzano e l'Università di Bologna, uno dei massimi esperti internazionali di questo tipo di interventi ha citato un dato raccapricciante, e cioè che, a livello internazionale, si spende solo 1 € per la prevenzione dei conflitti armati (e questi soprattutto dalle Organizzazioni Non Governative) contro almeno 10.000 € per fare le guerre. Ne consegue che, se non si riesce a modificare questo stato di cose, ed incrementare il lavoro e le spese per la prevenzione, il nostro futuro sarà pieno di guerre.
Ma ho anche ricordato un avvenimento che è stato decisivo per il mio impegno attuale nel settore della prevenzione. Quando la guerra jugoslava era appena iniziata vennero a casa mia quattro donne pacifiste dei vari paesi di quell'area accompagnate da Marko Ren, che avevo conosciuto in un convegno internazionale della WRI (Internazionale Resistenti alla Guerra) e che era allora il direttore di un Centro Studi e Ricerche per la Pace di Lubiana (in Slovenia). Ricordo ancora come fosse oggi l'appello della donna che proveniva da Sarajevo, in Bosnia “Fate qualche cosa per far terminare questa guerra e per prevenire che venga da noi perché, altrimenti, sarà una guerra fratricida dato che siamo tutti mescolati: serbi, croati e bosniaci ed altre etnie fanno tutte parte delle stesse famiglie!”. Ma non sapevo cosa potevamo fare e non feci nulla per rispondere a questa richiesta. Solo più tardi, dopo aver organizzato (in una scuola estiva per la nonviolenza messa su dalla mia famiglia a San Gimignano) vari seminari sulla mediazione dei conflitti con Adam Curle, un quacchero inglese con una lunga esperienza in questo campo, ho partecipato, prima, all'iniziativa dei Volontari di Pace in Medio Oriente, per cecrra edi prevenire la prima guerra dell'Iraq, e più tardi, insieme alla Campagna Kossovo per una soluzione Nonviolenta per cercare di prevenire la guerra del Kossovo, e con mia moglie sono andato in quella zona come ambasciatore di pace per studiare a fondo il problema, partecipando anche a molti incontri tra le due parti in conflitto. Non è qui il caso di approfondire questo tema, che rimando ad alcuni miei scritti, c'è solo da dire che la Transnational Foundation for Peace and Future Research, svedese, già nel 1992 aveva studiato a fondo il problema e scritto il primo saggio su “Prevenire la guerra del Kossovo” nel quale dava indicazioni concrete su come farlo, indicazioni che noi abbiamo riprese e sviluppate, ma che saranno trascurate del tutto dalla comunità internazionale ed applicate solo dopo la guerra per porre fine a questa.
Ma nella mia conclusione ho anche affrontato un altro tema: e cioè se per intervenire in una situazione di conflitto fosse sufficiente che ci fosse la richiesta, esplicita o implicita, di una sola delle parti in conflitto in quel paese, oppure che questa venisse da ambedue le parti. Di solito i mediatori intervengono solo quando c'è la richiesta delle due parti, per aiutare a trovare una soluzione concordata. Ma nella maggior parte degli interventi illustrati (Palestina-Israele, Iraq, Kossovo, Libano, Columbia, Africa, ecc.) la richiesta, o domanda legittima, veniva solo da una delle due parti, quella più debole. Ma questo richiede una riformulazione del ruolo dell'operatore di pace che spesso invece di svolgere quello di mediatore si trova impegnato a fare un lavoro di animatore sociale, di aiuto cioè alla parte più debole a prendere coscienza del conflitto ed organizzarsi per affrontarlo in modo adeguato, attraverso le armi della nonviolenza che nel frattempo le sono state insegnate. Ma come fare questo dovremo vederlo meglio quando affronteremo le risposte alla quarta domanda che riguarda appunto i conflitti squilibrati.
2) La seconda domanda posta ai partecipanti della Tavola Rotonda era: Come evitare i danni del colonialismo solidale?
Le risposte avute concordano nel considerare importante questa domanda ma anche difficile evitare completamente questo danno, infatti andando in un paese estero rischiamo sempre di portare loro bisogni che fino a quel momento non sentivano. Per questo è importante formare a fondo gli operatori che intervengono anche per far loro conoscere in antecedenza i problemi, la cultura, le abitudini, le caratteristiche stesse del territorio in cui si va ad operare. E' inoltre importante non fare interventi solo estemporanei ma vivere con la gente ed a lungo in quel luogo, essendo attenti a non trasmettere loro acriticamente i nostri modelli di vita e culturali, ma solo i principi di fondo che ispirano il nostro intervento. Nella formazione agli operatori che vanno nel paese è importante anche lavorare molto sulla loro capacità di decentramento cognitivo, in modo che mettano in discussione anche se stessi e la propria cultura. E' stato sottolineato inoltre che questa formazione degli operatori esterni che intervengono in un paese va fatta prima dell'intervento, durante questo, ed anche alla fine, perché quest'ultima può anche servire a rivedere l'impostazione di tutto il lavoro. Ma è emerso pure che forse l'aspetto più importante è quello di andare in quel paese non pretendendo noi di risolvere i loro problemi ma solo cercando di lavorare, come catalizzatori, per la “mitigazione del conflitto” e cioè cercando di creare un clima nel quale le diverse posizioni emergano e si confrontino reciprocamente affinché le persone del posto possano trovare da sole la soluzione ai propri problemi. Questo comporta anche l' aiuto alle persone del posto, ed in particolare agli operatori locali (che secondo l'Associazione per la Pace sono i soli che dovrebbero restare a lavorare nel luogo, lasciando agli esterni solo il ruolo di formazione, di capacitazione dei locali e di verifica) a formarsi, ad avere coscienza del proprio potere, a comprendere l'importanza ed i modi della lotta e del confronto nonviolento, non solo negli aspetti conflittuali, ma anche nelle sue capacità costruttive, nella ricerca cioè degli obbiettivi sovraordinati che non possono essere raggiunti che attraverso un lavoro in comune tra le due parti. Un altro aspetto segnalato è la necessità che chi interviene sia indipendente rispetto alle persone locali e che queste siano lasciate libere di portare avanti le proprie scelte e non quelle degli intervenuti, il che richiede da parte degli esterni un grande rispetto per la cultura e le abitudini delle persone del luogo che perciò vanno solo aiutate ad accrescere le proprie competenze e conoscenze senza alcun tentativo di imporre loro valori che provengono dall'esterno. Ma si sottolinea anche, da parte delle PBI, l'importanza della presenza in loco di persone esterne, che non interferiscano nel lavoro dei locali, ma che servano a dare visibilità all'esterno di quello che questi fanno, e in particolare alle persone del luogo che chiedono giustizia, o ai locali che si occupano dei diritti umani, o che protestano per le angherie subite da loro o da loro familiari. In particolare questo tipo di lavoro, grazie a gruppi di appoggio in tutto il mondo che facciano capire (con E mail, telegrammi, comunicati stampa, ecc.) alle autorità locali che a livello mondiale è noto che alcune di queste persone sono minacciate dagli squadroni della morte, può stimolare, come è avvenuto varie volte (ed ha salvato la vita a Rigoberta Menciù ed altri), queste autorità a darsi da fare per evitare che le minacce siano trasformate in realtà. E questo sottolinea l'importanza dello stretto rapporto tra chi lavora in loco ed i gruppi locali del paese di origine che devono operare con uno stretto collegamento reciproco, il che rende il lavoro in loco molto più sicuro, efficace, e produttivo.
3) La terza domanda era: “Come gestire il rapporto con il territorio e le popolazioni localii?
Nel rispondere a questa domanda è stato segnalato il rischio, se non abbiamo prima risolto i conflitti interni alle persone che vanno a lavorare in zona, o quelli tra le diverse organizzazioni che intervengono nella stessa zona, non sempre omogenee tra di loro, di aggiungere al loro conflitto anche il nostro. Per questo è importante non solo una buona formazione degli operatori, sia nostri che quelli locali, ma anche una maggiore sintonia tra le organizzazioni che intervengono, problema che tratteremo quando si parlerà delle risposte alla quinta domanda. E' stata inoltre segnalata la delicatezza ed i problemi di un intervento esterno che spesso tende a porsi in posizione di advocacy (in italiano traducibile come “appoggio” o “sostegno”) ai gruppi che riteniamo “vittime” del conflitto nel quale andiamo adoperare. Ma la domanda posta è stata se siamo realmente legittimati a dare un giudizio su chi è l'aggressore e la vittima, o se talvolta queste due posizioni non siano interconnesse ed intrecciate tanto che le vittime sono talvolta, o possono diventarlo, aggressori e viceversa . Questo problema andrà tenuto presente anche rispetto alle risposte alla domanda successiva, sui conflitti squilibrati, ma rispetto a questa specifica domanda ci impone un serio lavoro con ambedue le parti del conflitto in loco, in modo che tutti e due gli interlocutori (che talvolta sono più di due perché all'interno delle due parti ci possono essere contrasti importanti da non sottovalutare) capiscano le nostre idee, i nostri scopi, i nostri principi, e le nostre metodologie di lavoro, ed anche se magari non l'accettano del tutto, perché una delle parti sente questo come una minaccia al proprio potere, siano disposti per lo meno ad accettare che questo venga portato avanti, magari per il desiderio, forse anche inconscio o represso, che questo possa servire a ridurre i conflitti di cui esso stesso si sente vittima. E' stato sottolineato inoltre come sia importante il coinvolgimento e la collaborazione non solo delle ONG, sia nostre che del luogo dove si interviene, ma anche delle amministrazioni locali che possono diventare attori e collaborare reciprocamente mettendo in atto un tipo di attività che è stata definita di “reciproca ingerenza”, o di “interconnessione”, che può arricchire notevolmente il lavoro svolto in loco e portare a scambi reciproci che possono essere di mutuo arricchimento, sia nel luogo dove si opera sia nel nostro paese .dal quale provengono alcuni degli operatori. E questo anche attraverso un coinvolgimento di attori economici, che possono, se ben orientati, contribuire significativamente alla trasformazione nonviolenta del conflitto in atto. Un altro aspetto segnalato, che richiama quanto già detto nelle risposte alle domande precedenti, è l'importanza di missioni esplorative e di ricerche approfondite che permettano di conoscere i punti di vista di tutti gli interlocutori della zona, non solo quelli delle parti dominanti degli interlocutori ma anche delle parti deboli di ambedue gli attori in conflitto che spesso, essendo le più interessate al superamento del conflitto stesso, possono servire ad una migliore comprensione reciproca ed a svolgere anche un lavoro di mediazione, come sottolinea Galtung nelle sue ricerche. L'esempio più chiaro di questo è il “Parents Circle” in Israele, associazione nel quale si ritrovano e lavorano insieme i parenti delle vittime di ambedue i terrorismi, sia quello palestinese che quello israeliano, e che operano insieme, attivamente, per la ricerca di una pace giusta per ambedue i contendenti.
4) Quarta domanda: “Come operare in un conflitto sbilanciato tra vittime ed aggressori?”
Le risposte a questa domanda hanno tenuto conto di quanto già detto che non sempre il confine tra queste due categorie è netto, e molto spesso succede che le vittime di prima diventino i carnefici di domani. Per evitare di essere responsabili delle angherie commesse dalle vittime di oggi che magari sono state aiutate da noi a superare il loro stato di soggezione, è importante tener presente le indicazioni della risposta precedente, e cioè di lavorare con le due parti in lotta tra loro aiutandole a creare un clima, definito di “mitigazione del conflitto”, nel quale le due parti, con l'aiuto di una terza che applichi il principio di “non ingerenza” e cerchi seriamente di aiutarle a trovare una soluzione accettabile per ambedue i contendenti, contribuisca anche ad individuare quelli che, nella teoria della trasformazione nonviolenta dei conflitti, si definiscono gli “obbiettivi sovraordinati”, quelli cioè che non possono essere raggiunti senza un accordo ed un lavoro comune delle due parti. Ma la mitigazione significa anche aiutare a far passare il conflitto dalla forma spesso cruenta a disastrosa attuale ad un confronto, sempre serrato, ma fatto attraverso le armi della nonviolenza . Ma questo richiede anche, se le due parti non conoscono ancora i principi ed i metodi della nonviolenza, di aiutarle a conoscerli e saperli usare. Questa impostazione è stata definita da molti come “equivicinanza” alle due parti in conflitto, proprio per l'attenzione data dall'operatore esterno a non farsi coinvolgere esso stesso nel conflitto e non diventarne parte. Ma la maggior parte dei conflitti attuali è tra attori squilibrati: uno di questi ha il potere ed è molto più attrezzato militarmente, l'altro non lo ha e subisce il dominio del primo (come spesso succede in paesi non democratici tra la cittadinanza ed i detentori del potere), oppure risponde in forme non convenzionali, con attentati, kamikaze o simili (poco costosi in termini monetari ma molto dannosi nei termini delle vite umane e della sicurezza delle persone). Le PBI, che sono intervenute in moltissimi conflitti di vario tipo, hanno elaborato un nuovo concetto che secondo me risponde meglio al lavoro necessario in queste situazioni, e cioè “la non partigianeria”. Il compito principale, nei conflitti squilibrati nei quali la mediazione e la ricerca di accordo va sempre a vantaggio del più forte, è quella di lavorare per riequilibrare il conflitto stesso, aiutando la parte più debole a prendere coscienza del conflitto stesso, ad organizzarsi ed a prepararsi all'azione nonviolenta con la quale confrontarsi con l'avversario da posizioni di parità e non di dipendenza. Si aiuta il più debole a riequilibrare il conflitto, ma quando questo è avvenuto ed i due avversari possono confrontarsi alla pari, si lascia al confronto l' esito dello stesso. In caso contrario si cadrebbe nell'errore di essere partigiani di una delle due parti. Ma come hanno sottolineato tutte le organizzazioni presenti per operare bene nella zona è necessaria una lunga preparazione dei volontari, sia per l'apprendimento della lingua, sia per la conoscenza del luogo e della sua cultura, sia anche infine per superare le proprie debolezze interne e rinforzarsi anche, e soprattutto, per superare le proprie paure quando ci si trova in una situazione difficile e complessa.
5) Quinta domanda: “Come seguire il cammino della nonviolenza nel rapporto tra le associazioni?”.
Purtroppo da parte di vari interlocutori si è sottolineato le difficoltà a lavorare insieme alla pari. C'è la tendenza delle varie associazioni di volere coordinare le altre ma si accetta poco di essere coordinate. Questo rende il lavoro molto meno produttivo e talvolta anche del tutto inefficace. E' stato inoltre sottolineato che nel nostro paese c'è un eccessivo frazionamento con moltissime organizzazioni che portano avanti un lavoro simile ma con scarsi collegamenti l'una con l'altra. Da noi, ad esempio, mancano organizzazioni come Oxfam inglese, che ha centinaia di migliaia di associati e varie centinaia di operatori a pieno tempo. Da noi prevale la piccola organizzazione, basata in gran parte sul volontariato, con pochi, e spesso anche nessuno, operatori a pieno tempo. Un tentativo positivo,ma non senza problemi di gestione comune, è stato quello del Tavolo degli Interventi Civili di Pace nel quale si sono riconosciute ed hanno lavorato insieme molte delle organizzazioni che partecipano a questa Tavola Rotonda. Comunque l'opinione generale è stata quella che questa esperienza, malgrado le difficoltà incontrate , vada valorizzata e potenziata perché comunque si è trattato di un lavoro comune tra molte organizzazioni che ha dimostrato che insieme si può fare molto di più, di quanto si faccia ognuno da soli. E si è anche sottolineato che in certi conflitti annosi, come quello in Israele-Palestina, non è nemmeno sufficiente un coordinamento nel nostro paese ma è necessario che questo avvenga a livello europeo come sta tentando di fare la Luisa Morgantini, già vice Presidente del Parlamento Europeo, per una prossima iniziativa a Gaza. Ed è emersa con forza la necessità, se si vuole realmente fare dei passi avanti in questo tipo di interventi, di un maggiore ascolto reciproco tra le diverse associazioni con l'organizzazione anche di attività comuni sul campo, e con incontri periodici per coordinare meglio le nostre reciproche attività. Ma è stata anche segnalata con forza la necessità di dar vita a strutture stabili che diano continuità al lavoro per la pace, come centri studi e ricerca che non si limitino a ricercare teoricamente ma facciano anche interventi concreti sul campo secondo la metodologia della ricerca-intervento che è quella che gli studiosi di pace e nonviolenza indicano come la più adatta ad operare in questo settore. Secondo questa metodologia dopo aver studiato a fondo un problema si individua una o più ipotesi di intervento, si mettono in pratica, e se ne verificano poi i risultati. Se questi sono positivi, e corrispondono alle ipotesi di partenza, si continua a lavorare intensificando ed allargando l'intervento; in caso contrario si individuano altri fattori ed altre ipotesi con le quali intervenire mettendo alla prova anche queste, ed anche qui se i risultati sono positivi andando ad un allargamento dell'intervento.
Ma nel tirare le somme della tavola rotonda mi è sembrato opportuno segnalare come tutte le nostre organizzazioni hanno un nemico comune da combattere, e cioè la cultura eminentemente militarista e violenta nella quale siamo sommersi che fa credere al cittadino comune che la guerra sia insuperabile, che c'è sempre stata e che ci sarà sempre, e fa credere pure che intervenire in un conflitto armato senza armi e con la sola nonviolenza è una utopia ed un rischio inaccettabile. Una cultura inoltre che, secondo le varie ricerche svolte, ci dice che dal 70 all' 80 % (a seconda del luogo, del sesso e dell'età) dei nostri compaesani è convinta che il prossimo lo vuole fregare, e che perciò, per non essere fatti fessi, bisogna che lui lo freghi per primo. E se il prossimo è diverso da noi, per colore della pelle, per religione, per cultura e consuetudini, questo tipo di comportamento deve essere ancora estremizzato . Una cultura cioè che è alla base del menefreghismo, dell'isolamento, del razzismo, dell'evasione fiscale, della corruzione, della mafia e delle altre forme di comportamento criminale che sono molto diffuse nel nostro paese. Se di fronte a questo ci muoviamo ognuno per conto nostro rischiamo di essere sommersi e schiacciati prima ancora di iniziare a muoverci. Per questo è indispensabile lavorare uniti per fare un approfondito lavoro di coscientizzazione della popolazione che ci sta intorno, ma soprattutto di quelli che soffrono di più di questo stato di cose, per aiutarli ed aiutarci in un opera di organizzazione che ci permetta di confrontarci con i portatori di questa cultura violenta, se non alla pari per lo meno da posizioni meno svantaggiate di quelle attuali, con la creazione di reti che colleghino tutti i gruppi e le associazioni che sono ugualmente coscienti di questa necessità di cambiamento ed operano in qualche modo per portarlo avanti (non solo nel settore della lotta alla guerra ma anche nella ricerca di un modello di sviluppo più democratico, basato su energie dolci, sulla reale partecipazione e sulla solidarietà) per individuare insieme una o più campagne nonviolente che scuotano dalle radici la cultura militarista in cui siamo attualmente sommersi.
Ci riusciremo? Forse si se non ci scoraggiamo in partenza per l'immensità del compito e se cerchiamo umilmente e pazientemente alleanze che ci permettano di essere più credibili ed efficaci. L'incontro di ieri e di oggi è stato sicuramente un buon passo avanti per accordare reciprocamente i nostri scopi ed i nostri strumenti di lavoro per quanto riguarda gli interventi nonviolenti nei conflitti armati all'estero. Nel concludere la tavola rotonda la sua presidente Fabiana Bruschi ha ricordato che il tradizionale incontro contro le mafie del 1 marzo, per decisione unanime, nel 2010 si terrà a Reggio Emilia, organizzato anche dalla sezione dei Berretti Bianchi di quella città, insieme alle associazioni di Locri e del mezzogiorno che si occupano di questo tema. E che i Berretti Bianchi, con la collaborazione si spera dell'IPRI-Rete Corpi Civili di Pace, e, ci auguriamo, anche delle altre organizzazioni che hanno partecipato a questo incontro, hanno intenzione in quella occasione di organizzare un secondo seminario, simile a questo, ma nel quale si affronti il tema degli interventi nonviolenti nei conflitti interni al nostro paese, ed in particolare nella lotta alla mafia ed alla corruzione, che in questo seminario sono stati volutamente lasciati da parte. Sia Lei che io ci auguriamo che anche quell'incontro serva ad approfondire il ruolo di quelli che noi chiamiamo i “Corpi Civili di Pace”, ed altri invece “Interventi Civili di Pace”, come strumenti fondamentali di prevenzione dei conflitti armati e della loro trasformazione nonviolenta. Arrivederci al 1 marzo e grazie dei vostri importanti contributi a questo dibattito..
[1] Ringrazio in particolare Mauro Cereghini , del Tavolo Trentino, a Pasquale Dioguardi , delle PBI , per le correzioni puntuali alla bozza di relazione da me predisposta.
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