“In difesa di Barack Obama” di Emilio Carnevali


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17 settembre 2012

Premessa

Ho cominciato a scrivere queste pagine ai primi di luglio, a Filadelfia. Da qualche settimana diversi sondaggi segnalavano il sorpasso dello sfidante repubblicano Mitt Romney sul presidente in carica, Barack Obama, per le elezioni del 6 novembre.

Pochi giorni prima la Corte Suprema aveva dato il via libera alla riforma sanitaria, il Patient Protection and Affordable Care Act. Una decisione a sorpresa, data la maggioranza di giudici conservatori (nominati da presidenti repubblicani) del massimo tribunale Usa.

Veniva così ratificata la più importante, e contestata, riforma del primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti, quella su cui aveva investito gran parte del capitale politico accumulato con la sua elezione nel 2008.

A due mesi dalle presidenziali del 2012 l'esito del voto è ancora del tutto incerto. I sondaggi si susseguono, la distanza fra gli sfidanti rimane minima. Nessuno può dire chi uscirà vincitore.

Ciò che finora si può immaginare sono i commenti “retrospettivi” che faranno seguito ai risultati.

Se Obama uscirà sconfitto, si parlerà dell'inevitabile caduta di un presidente che ha tradito il sogno di cambiamento grazie al quale era stato eletto: un presidente debole, indeciso, troppo incline ai compromessi con l'opposizione, le lobby e i poteri forti di Washington. Un uomo che, ormai da tempo, aveva perso l'aura magica di carisma, la sua immagine di freschezza e vigore. E, soprattutto, un leader incapace di rendersi conto della gravità della crisi economica nella quale il suo Paese è sprofondato e, quindi, di offrire soluzioni all'altezza della situazione.

Se invece Obama vincerà si parlerà di un “trionfo epocale”. La sua capacità di “parlare a tutti”, di guidare il paese in anni difficilissimi, di realizzare riforme fondamentali in condizioni politiche avverse, saranno celebrati come fattori alla base di un successo costruito con abilità e saggezza.

In politica vincere è importante, fondamentale. È la vittoria che determina la possibilità di passare dalla mera testimonianza, dalla semplice declamazione di idealità, dalla frustrante ostentazione di indignazione, a pratiche concrete di mutamento dell'esistente; come è la vittoria che sancisce il positivo responso democratico su ciò che è stato fatto fino a un certo punto, e dunque su quel che si potrà ancora fare in seguito.

Talvolta, però, dietro la giusta considerazione di un successo si nascondono anche la pigrizia di un giudizio conformista o l'opportunismo di un posizionamento comodo. La storia è piena di perdenti che hanno aperto nuovi sentieri di civiltà alle generazioni successive e di vincitori che avrebbero meritato ben altro trattamento nei giorni in cui si decantavano le loro magnifiche virtù.

Il rischio di “stare dalla parte dei perdenti” non dovrebbe spaventare chi si batte per migliorare la società in cui vive, ma nemmeno chi cerca di dare il proprio contributo intervenendo nel dibattito pubblico e proponendo a vario titolo analisi e opinioni.

Per questo motivo ho voluto raccontare i quattro anni di Barack Obama alla Casa Bianca prima delle elezioni del prossimo 6 novembre.

Sono convinto che nel nostro Paese il suo operato sia stato largamente sottovalutato, soprattutto da parte di quegli ambienti politici e culturali che avevano guardato con particolare interesse e speranza alla sua storia e alla sua impresa.

Il mio è un tentativo di “fare giustizia” dell'esperienza della presidenza Obama, caratterizzata da enormi limiti ma anche da generosi tentativi e da alcuni straordinari risultati. Risulterà evidente il mio approccio appassionatamente “di parte”. Se non altrettanto evidente, spero che risulterà sufficientemente chiara anche la mia volontà di raccontare con oggettività ed equilibrio i fatti sottostanti ai giudizi e alle riflessioni che accompagnano il racconto.

Roma, 28 agosto 2012

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