|
Eretici digitali Apogeo, Milano, 2009 |
Il manifesto di Eretici digitali
Dogmi da demolire e media in crisi Dieci tesi. Una proposta di conversazione. |
Fonte: http://www.tecalibri.info
Pagina 1 Capitolo 1 Dogmi da demolire e media in crisi A che punto siamo La rete ha prodotto una società divisa, con una parte che la vive e l'altra che la detesta. Non ha senso. Serve una lingua comune per parlarsi. Ma tranquilli: questa non è l'ennesima puntata della soap "giornali & internet". Semmai la questione è: con il digitale abbiamo tutti - vecchi e giovani, colti e meno colti, alti e bassi, destri e sinistri - un destino comune. E non riusciamo a parlarne insieme. Questo è il nostro obiettivo: parlare con una sola lingua. L'abbiamo lanciato la scorsa primavera in dieci tesi che sono il nostro indice (si veda in Appendice) e che sono riassumibili in un concetto: il digitale è un "nuovo universo" che, appena arrivato, rischia di scomparire. Ingoiato dagli establishment, normato da una politica letteralmente "ignorante", condizionato e riconquistato da vecchi e soprattutto nuovi padroni e doganieri. Potrebbe salvarsi alleandosi con una vecchia tigre: il giornalismo, inteso non come industria ma come pratica e cultura del Racconto. Abbiamo l'ambizione di parlare a tutti: a chi è fuori e a chi è dentro la rete. A chi dice "non capisco" per dire in realtà "non sono d'accordo". Al cittadino che critica i media a testa bassa - ovviamente quelli che stanno dall'altra parte della politica. Al musicista che si sente derubato e al "pirata" che gli scarica le note senza pagarle, all'utente di Facebook che ha conosciuto l'ultima versione della rete, dove, beato lui, si gira la chiave e il motore parte e allo "smanettone" della prima ora, che ha cominciato con l'auto a manovella e un po' lo guarda con invidia. Bisogna togliere il racconto di internet ai pionieri. Bisogna insegnare internet all'establishment. È possibile fermare la doppia deriva delle illusioni sui destini magnifici di internet e il delirio repressivo di una politica che non cessa di lanciare allarmi e produrre legislazione di guerra contro la libertà di espressione. Fra utopia e reazione, un'altra strada deve esserci. La rete è l'atmosfera in cui respirano vecchi e nuovi media, in cui l'industria più vitale degli ultimi cinquanta anni, quella digitale, ha ancora molto da costruire. Qui vive la gente di oggi e soprattutto di domani: imparare a parlarne in modo aderente ai fatti, senza enfasi e senza illusioni, è interesse costituito di tutti noi. "Dentro" e con internet si racconta: dal tè di ieri con le amiche alla rivoluzione di Teheran, tutto è racconto. Invece, la rete non è molte altre cose: un'edicola, un cinema, un modo nuovo per fare vecchia televisione, una piazza dove chiedere al popolo di legittimare poteri assoluti e celebrare processi sommari. E speriamo che non diventi un'autostrada a pedaggio e un bel giardino controllato recintato da alte mura. C'è chi vorrebbe che diventasse un buon posto per la censura. Per tagliare le gambe alla libertà di espressione di massa appena conquistata. O ancora per inventarsi nuove forme di demagogia. Il guaio è che, mentre si discuteva di internet, di rete, di umanità accresciute e media, il mondo è cambiato. La domanda potrebbe esser questa: siete sicuri che internet sia ciò di cui parlavamo cinque anni fa? La nostra risposta è no. Per certi versi la rete non esiste più. Ma riprendiamo il discorso dall'inizio. Dal sogno della rete, dalla crisi dei media e da tre dogmi da spazzar via per purificare l'aria. Il sogno della rete è in crisi Ve lo ricordate il pianeta Vulcano nella vecchia serie di Star Trek? Su Vulcano vive una razza di quasi-umani migliorati. Sì, hanno le orecchie a punta, e quando hanno il loro periodo riproduttivo, una sola volta nella vita, suscitano energie che potrebbero distruggere il mondo. Ma per il resto sono dediti alla logica più pura, al culto del dato scientifico e della più assoluta oggettività. Passioni, desideri violenti, la carne e il sangue delle cose terrene sono loro estranee. Per questo sulle astronavi della Confederazione terrestre del 2200 e oltre sono utilissimi. Perché gli umani vanno ancora e sempre cacciandosi in mille catastrofi, e uno che tenga i nervi a posto e continui a ragionare ci vuole. Nella successiva serie televisiva Star Trek: The Next Generation la logica evoluzione del vulcaniano è Data. È un androide, che ha dentro di sé tutti i dati del sapere umano, può interagire con computer e reti lontane, parlare lingue e, senza troppo coinvolgersi, perfino fare l'amore senza abbandonare la sua condizione di macchina pensante. Avete mai visto un vulcaniano leggere un giornale? E Data guardare la televisione? Domande stupide: sospettiamo che il vulcaniano sappia già per conto suo tutto quel che accade, il suo discernimento può accedere a qualunque dato e depurarlo di ciò che non è funzionale né logico. Data poi è informazione allo stato puro: è l'informazione che si fa umanità. I media, su Star Trek, non ci sono perché non si intermedia. Nemmeno la rete internet. E nemmeno i videogiochi, robaccia per alienati. Sull'Enterprise non si simula e non si gioca: si vive un'altra vita vera sul ponte ologrammi. Ora vi chiederete, ma cosa c'entra Star Trek? Star Trek è importante: è l'immagine di una umanità appassionata e forte, tollerante e dolce, multietnica e multietica. Ora sappiamo poi che l'attore che interpretava il signor Hikaru Sulu era gay e ne siamo contenti. I loro nemici, i Klingon, sono i campioni di una cultura medievale ed empia. Totalitaria: i Klingon non hanno informazione perché sono una società di valori e gerarchia, di obbedienza cieca e composta da individui non liberi. Quella di Star Trek è una "umanità accresciuta" (per dirla con le parole di Giuseppe Granieri) e migliorata dalla tecnologia. Ma totalmente altra dal conflitto. Che invece si presenta di continuo dentro quell'astronave. Non c'è fiction e quindi racconto senza lacerazione e passione, conflitto e contrapposizione. Ma che viene sempre risolto senza la politica: dal genio di uno, dalla logica di un altro, dal coraggio di tutti. Gli ordini la politica vengono dal comando centrale perché un potere c'è ma non si vede e sono temperati dalla saggezza di questa umanità che ha tutta l'informazione possibile. E sa come dominarla. Star Trek è l'immaginario di ciò che l'umanità tecnologicamente colta pensa di sé, è il meglio che le possa accadere. È economia dolce della felicità e dell'infinito piacere della (e attraverso la) conoscenza. Umanità forte di una saggezza scaturita da guerre e forse da crisi violente dovute all'avidità umana, tragedie che hanno spinto noi tutti a superare i confini nazionali, a unirci per la prosperità e il benessere. Star Trek ha superato ogni epoca della "scarsità" e dello sfruttamento diretto, quindi anche i "media della scarsità", quelli fatti da pochi addetti e specializzati. Star Trek è il buon esito della globalizzazione. E ha anche il pregio di essere una saga abbastanza vecchiotta per essere sì conosciuta dai ragazzi, ma amata e compresa anche da chi oggi ha sessanta anni. Da chi sta nell'establishment. Dai giornalisti. Dagli intellettuali. Dai politici. Dagli imprenditori minacciati dalla "pirateria". Ma è soprattutto una buona metafora dell'ideale della rete come il mondo lo ha sognato o temuto negli ultimi vent'anni. Ora la notizia è: il sogno è finito, non si realizzerà, e una realtà ben diversa si annuncia. Presa da quel sogno, negli ultimi venti anni la rete ha creato l'immagine dei giornalisti-Klingon. Sono cattivi, disonesti, venduti, sleali, ignoranti, pronti a colpire alle spalle, armati di un loro codice di onore ma pronti a qualsiasi operazione politica pur di zittire i loro avversari. Il loro mondo non è quello degli essere umani "normali": dalle loro parti "ignoranza" e "complotto", "servilismo" e "conformismo" sono comandamenti. Ne sono convinti in tanti, dentro e fuori la rete. C'è gente molto potente disposta a dirlo, che lo dice ogni giorno. Tra loro, anche qualche lupo che denuncia acque sporcate da agnelli che bevono a valle. Però questa non è ancora la nostra storia, anche se ci passeremo. Ma, come si è detto, il sogno è finito e l'Enterprise è tornata sulla terra per rimanerci. Non ci sono Klingon, non ci sono Vulcaniani. Ci sono Google, le Telecom, la Cina, l'Unione Europea, i deputati, i pirati diventati deputati e i deputati dediti alla pirateria della libertà altrui. Hanno prima cercato di farla fuori, la rete. Ora è partita la grande colonizzazione. È il momento chiave. Informazione come acqua potabile: un'emergenza di questo tempo Anni fa correvano i tempi dell'entusiasmo delle prime dot.com un giovane dirigente di un'azienda internet tenne un lungo intervento per dimostrare come la pubblicità degli annunci e dei banner, i riquadri pubblicitari presenti sui siti internet, fosse ormai superata da un agile mix di intrattenimento informativo e pubblicitario. Divertente e utile a guadagnare soldi. Un anziano dirigente della Bbc, un signore abituato a lavorare sulla base di un esoso canone televisivo, si alzò e andò al microfono subito dopo di lui. Si limitò a questo: "Al giovane che è intervenuto prima vorrei dire che, in tempi di alluvione, la risorsa più scarsa e difficile da trovare è l'acqua potabile". Parlava della notizia, distinta dall'interesse dell'industria che, con la pubblicità, paga i giornali. Se in questi anni c'è un'emergenza che la gente della rete "la" gente di tutti i giorni, quella che si incontra in metropolitana e allo stadio, gente che aumenta ogni giorno di numero sente come tormentosa, è la scarsità dell'acqua potabile, acqua potabile dell'informazione "vera", indipendente, critica. Alcuni, soprattutto quelli che per età non hanno esperienza d'altro, la scambiano con bevande di gusto elementare ma molto speziato. Con l'urlo del tribuno, con la furia iconoclasta, con la teoria della rete come tubo a U, che "almeno un po' di merda la rimanda indietro". Ma dall'America di Obama alla Cina della censura di stato, giù giù fino all'Italia di questi anni, il bisogno-base che milioni di persone stanno manifestando da ormai quindici anni è quello di una informazione forte, vero watchdog del potere. Sete di una informazione che ci restituisca i punti cardinali di un mondo troppo confuso, un mondo nel quale restano ideologie senza bandiere. L'idea prevalente è che il giornalismo attuale non soddisfi questa sete e allo stesso tempo che per farlo sia necessario prendere la parola. Una volta tanto noi italiani non siamo fuori dal mondo o ai suoi margini. Soffriamo come gli altri: il mondo è piatto e lo ha spianato la rete. I giornali potranno essere andati in crisi per molti motivi. Perché la pubblicità cala, perché c'è la tv, perché è arrivato chi ha pensato di regalare le notizie, anche su carta, un mondo di notizie per due fermate di metropolitana. Perché la televisione e la sua lion's share pubblicitaria li devasta. Perché scrivono in una lingua che i giovani faticano a capire, perché si occupano troppo di politica. Ma la metafora perfetta della loro crisi è la rete, che è l'immagine stessa del problema: una "società" che cresce e comunica per conto suo e in "luoghi" suoi e che non si trova rappresentata nel racconto del mondo che va in edicola ogni mattina. Lo fa a partire da giornali, televisioni, media di cui non è contenta, che sente insufficienti, ufficialisti, schierati, omissivi, lontani. Un vecchio libro sul "Corporate newspapering" americano si intitolava in modo geniale Leaving the Readers Behind. I giornali (i media) non hanno perso lettori (spettatori). Se li sono lasciati indietro, fuori da se stessi. Non li toccano più. Non è tanto questione di "nativi digitali", per dirla con Rupert Murdoch, anche se il problema esiste. Il punto è che sia gli immigrati che i nativi digitali, per usare parole ormai antiche, sono un pubblico diverso da quello di sempre. La "preghiera del mattino dell'uomo moderno" (Hegel) non è più da tempo il giornale. Ma il desiderio di "pregare" è aumentato. Proprio mentre la delega che faceva del giornalismo uno dei miti fondativi della democrazia veniva tranquillamente ritirata. All'improvviso l'attore protagonista si è trovato al margine della scena, ma il suo mito sopravvive. E tuttavia è da lui che si attendono le parole più forti. Ancora per poco, però. Non è rimasto molto tempo, perché la crisi è antropologica: non si tornerà all'autorevolezza facendosi pagare per un pezzo di giornale. Si fa un gran parlare di multimedia, ma sarà sempre quello che è raccontato, in qualsiasi forma, a decidere del successo di chi scrive e comunica. E sul successo pesa oggi l'assenza di una cultura che li aiuti a leggere la transizione digitale, che è in sé antropologia e politica. Questa non è una nostra tesi. È un parere di massa. La nostra tesi è che queste due "forze", cittadini elettronici e giornalismo (non "editoria" e non "giornalisti") possano ancora incontrarsi per trovare insieme il futuro. Ma il tempo è poco, ed è brutto tempo. Per poter vedere chiaramente la strada è necessario mettere da parte tre ordini di dogmi. Quelli prodotti dal potere. I dogmi del giornalismo. Quelli della gente della rete. I dogmi della politica e la voglia di ripristino di un controllo sociale stretto La politica americana ha scelto di inserire la rete nel mondo degli anni Novanta, e non mancano le teorie complottistiche sulle ragioni di questo rilascio al pubblico di una tecnologia esclusivamente militare. In realtà a volere quell'operazione e a portarla a termine fu Al Gore, quale vice del presidente Bill Clinton. L'idea che ci fosse bisogno di quelle che all'epoca venivano chiamate information highway, autostrade dell'informazione, per lanciare una lunga fase di sviluppo economico, durata poi dodici anni, era un argomento che veicolava l'enfasi della frontiera. È qualcosa di molto vicino ai temi di Barack Obama, quando parla delle grandi opere infrastrutturali necessarie a rilanciare gli Stati Uniti: un'opportunità di progresso, non un lusso da ricchi altrimenti perché, nonostante tutte le censure, un regime come la Cina continua a tollerare la presenza della rete? Tutto il resto del mondo ha subito quella gigantesca operazione. E in particolare ha subito l'aspetto imprevisto, anche per la dirigenza statunitense, la unintended consequence dell'esplosione, prima sconosciuta nella storia, di un grado inedito di pratica della libertà di espressione. Il disagio per la "natura americana" di internet si trascina ancora nelle polemiche, di fonte soprattutto cinese, iraniana e russa, che mettono in discussione il "controllo yankee" sulla gestione della rete. È stata avanzata più volte la richiesta che il governo mondiale di internet abbia come sede l'Onu. Per più versi un esito non augurabile. Internet "sa" di America e di globalizzazione. Non solo perché íl suo boom ha dato impulso alla borsa americana sul finire degli anni Novanta e all'inizio del secolo, prima che a quelle di tutto il mondo. Non solo perché l'industria tecnologica degli Stati Uniti ha tratto grande vantaggio dallo sviluppo della rete ma lo stesso si può dire per i fabbricanti di computer cinesi. Non solo perché se una egemonia culturale è rimasta in terra americana è proprio quella dell'industria della conoscenza che attira talenti, idee e capitali da ogni parte del mondo. Del resto, togliete all'America degli anni Duemila il boom di Google, del web 2.0 e dei social network: cosa rimane? Biotecnologie a parte, la bolla immobiliare, Guantanamo e George W. Bush. È americana la produzione scientifica che sottende lo sviluppo della rete. L'industria dell'hardware, che beneficia del pieno realizzarsi della legge di Moore, per la quale le prestazioni dei processori raddoppiano ogni diciotto mesi. E negli Stati Uniti è localizzato il W3C (World Wide Web Consortium), organismo di coordinamento e creazione di standard industriali che ispira e regola tutto il mondo del web, dove vengono elaborate le linee guida e i linguaggi che permettono il continuo sviluppo delle nuove applicazioni. In pratica, il posto dove viene disegnata e ridisegnata di continuo l'architettura del web, decise le sue regole tecniche, l'elaborazione di linguaggi sempre nuovi. Il W3C è diretto da (e a lui deve la sua fondazione) Tim Berners-Lee, l'uomo che disegnò il web. Ogni tanto qualcuno lo identifica come il creatore di internet. Non è così: Berners-Lee ha fatto con internet ciò che il suo Consorzio continua a fare. Un giorno, sulle terre incolte, i boschi e i ruscelli della rete ha realizzato un ordine in forma di disegno che permette agli umani di classificare, conoscere e descrivere il paesaggio. Ma torniamo alla politica. Non c'è soltanto il fastidio per la cultura, le regole e la governance americana della rete, sempre più in difficoltà a mano a mano che cambia la geopolitica del mondo (questo contrasto "Usa contro tutti" è destinato a riprodursi con la decisione dell'amministrazione Obama di optare per la libertà e neutralità della rete, contro l'idea europea, statalista e controllista, delle "regole" e della regolamentazione, dietro cui si perdono i parlamenti del continente, a cominciare da quello francese). Il già citato Thomas Friedman si è spinto molto oltre con la sua teorizzazione di un mondo piatto, nel creare il quale la rete ha avuto un ruolo fondamentale. Ma oggi descriveremmo, onestamente, il mondo in questo modo? Internet degli anni Novanta lo vedremo fra qualche pagina si accompagnava a un'idea universalista, "buona", equa della globalizzazione, il giusto sogno di un mondo che si era appena liberato dall'incubo della guerra fredda, durato quarant'anni. Ma oggi la metafora della rete ha qui la sua crepa maggiore: nei poteri che vi si scontrano, nelle architetture che si contrappongono a quella americana. Nei controlli e nelle censure imposti da ogni stato nazionale. Nei condizionamenti anche moralmente abietti che vengono dettati alle aziende che vogliono investire in alcuni paesi (come nel caso della delazione di Yahoo! ai danni di un blogger dissidente cinese). E quindi... Il controllo sociale danneggiato Ai non americani la rete ha fatto da subito una pessima impressione. Anche agli americani, per la verità. I primi ammonimenti sui rischi di terrorismo in rete, sulle "bombe atomiche fabbricate su internet" sono dei primi anni Novanta e provengono proprio dai servizi americani, ossessionati da un terrorismo che avrebbe poi colpito in tutt'altri modi. Sono poi venute la campagna sulle truffe con carta di credito, poi quella sulla pedofilia e l'intera casa degli orrori connessa a questo argomento. Il climax viene raggiunto con la cosiddetta pirateria, intendendo con questo termine (più restrittivo che spregiativo) la pratica di massa dei download attraverso tecnologia p2p. Pirateria? Anche i nativi americani furono definiti selvaggi. Naturalmente buona parte di questi aspetti negativi ha una sua reale consistenza. Il "male esiste", come si suol dire, ma il racconto del male non è neutro. Il video che un gruppo di adolescenti italiani pubblica online per compiacersi delle sevizie inflitte a un compagno di scuola disabile è un documento eccezionale, che solo grazie a uno strumento portentoso di verità e conoscenza è potuto arrivare fino a noi. Eccezionale perché ci fa conoscere un lato marcio e oscuro della nostra esistenza che forse esiste da sempre. E invece no, la risposta sta nella demonizzazione del mezzo; si veda la reazione di un ministro di allora, che chiese un "filtro" alla cinese. La demonizzazione assoluta annienta ogni possibilità di accettazione sociale del nuovo e sposta la soluzione di ogni problema sul piano dell'emergenza e dell'ordine pubblico. La paura prende il posto del processo di conoscenza. Per lungo tempo c'è stato chi anchorman, politico ha parlato in Italia di "chiusura di internet" e altri attori aziende televisive e di telecomunicazione ne hanno a lungo declinato le possibilità d'uso esclusivamente all'interno di uno spazio chiuso, da controllare e, guarda un po', sfruttare per finalità economiche. Negli anni è emerso anche il ruolo di cassa di risonanza politica svolto da internet. Si prenda il caso della rivolta di Teheran contro i brogli elettorali ai danni del capo dell'opposizione Moussavi, dove il regime ha ricevuto un colpo micidiale, anche se non definitivo, dalla cronaca twitterata degli eventi. Ma dalla protesta di Tien an men del 1989 dove i messaggi arrivavano in tutto il mondo, attraverso una rete ancora per pochissimi, passando da centro di calcolo a centro di calcolo e ridiffusi dai ricercatori scientifici alla stampa alla rivolta delle uova nell'ex Jugoslavia di Milosevic, fino alla Birmania dei monaci arrestati e deportati, è possibile identificare un unico filo rosso. Una traiettoria di continuità secondo la quale, dai paesi fondamentalisti fino all'Europa e ai movimenti studenteschi, per oltre quindici anni la rete è stata un punto di allentamento del controllo politico e sociale. Si è posta come un circuito totalmente alternativo, una corrente di pensieri e di scelte che ha aggirato divieti, ridicolizzato i dazi e bypassato il monopolio del sapere, di ogni sapere. Un allentamento inviso agli establishment. Di tutti i poteri e tutti gli establishment: per non parlare solo di regimi fondamentalisti, si potrebbe ricordare la lunga campagna dei servizi di sicurezza americani contro l'uso da parte dei privati degli algoritmi di criptazione della corrispondenza. Perfino nella repressione la rete è riuscita a produrre novità inedite. Non benvenute, ma novità. In Cina, di fatto il primo "paese internet" al mondo per numero di utenti, ha avuto luogo un fenomeno di controllo e repressione della libertà politica che per numero di addetti coinvolti, di tecnologie impiegate e per "creatività" sviluppata, dovrà essere studiato in futuro. Non si tratta di un coperchio, come per i regimi comunisti degli anni Cinquanta e Sessanta, piuttosto di un "filtro" e di un intervento selettivo, intelligente e mirato di forme dell'espressione sociale. E il filtro degli addetti poggia da un lato sulle tecnologie più raffinate, dall'altro su un'utilizzazione assai creativa della delazione capillare da parte degli stessi utenti. Un grande esperimento di repressione condizionata, visto che non è possibile mettere il coperchio a 1,3 miliardi di individui che hanno imboccato la via dello sviluppo economico. Come ha scritto nel suo blog uno studente italiano in Cina per motivi di studio, "la censura è invisibile, silenziosa, snervante, casuale. Non sai quando colpisce, hai sempre il dubbio di aver sbagliato tu qualcosa, non la 'vedi' e non puoi contestarla". L'atteggiamento di chiusura e di censura nei confronti della rete non è un'esclusiva della politica italiana. È l'intera politica europea a essere orientata in questo senso, come dimostrano la Francia e perfino la Gran Bretagna, dove negli ultimi quattro anni di governo del Labour sono stati approvati alcuni provvedimenti restrittivi della libertà dei cittadini di comunicare e conoscere. Certo c'è anche la Svezia, dove a fronte di una condanna penale per pirateria fa da contrappeso un'elezione a deputato europeo di un rappresentante degli accusati. Ma la tendenza forte resta quella alla repressione. Torneremo su questo discorso. Per ora basti questo: tutti gli establishment sono in naturale contrapposizione con l'allentamento del controllo sociale permesso dalla rete. |
Pagina 229 APPENDICE Dieci tesi. Una proposta di conversazione. La rete è in pericolo, il giornalismo pure: come salvarsi con un tradimento "Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo per percepirne non le luci, ma il buio. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (...) Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese, ed è per questo inattuale. Ma proprio grazie a questo scarto e questo anacronismo è in grado più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo". Giorgio Agamben I media sono in crisi, ma la rete rischia di sparire come luogo di libera comunicazione. Il giornalismo, che serve per la democrazia, rischia di affondare. La nuova opinione pubblica fa fatica a comprendere i rischi cui è sottoposta la libertà di espressione. Tutta la libertà di espressione, non soltanto quella degli addetti ai lavori. L'esito negativo non è scontato. Ma per cambiare le cose è necessario rileggere i rapporti tra rete e media con un approccio "eretico", che tradisca alcuni dogmi. Una duplice eresia dei chierici del giornalismo e dei cittadini della rete che crei il nuovo racconto dei media. I neoluddisti, l'agiografia della rete e, al centro, il moloch del potere Tre generi di dogmi hanno urgente bisogno di essere demoliti: • quelli del potere, che tende a legittimare solo il "racconto" dei media che gli sia mimesi e consenso; • quelli della corporazione, che scambia il supporto, la carta, con la natura del giornalismo; • l'apologetica del digitale che preconizza la nascita di una società virtuosa perché tecnologica e si affida alle "piattaforme", raccontando di uno sviluppo senza conflitti e buono in sé. Noi proponiamo alla conversazione della rete dieci tesi, un progetto aperto. [...] III. L'ossessione securitaria della politica e la libertà d'accesso fatta a fette Il potere politico fatica a comprendere le potenzialità del digitale e vi si accosta solo per regolamentare, troncare, sopire e per costruire una società nella quale la rete sia ridotta a piattaforma-media. L'ossessione securitaria poggia su un racconto della rete che indica solo le sue negatività, i suoi nodi, l'antropologia impazzita che la rete produrrebbe. È una rappresentazione reazionaria e autoritaria che ha ormai disegni diversi ma molto determinati e chiari: la regolamentazione europea in sede di direttive su Telecom, privacy e protezione dei minori contiene gravi minacce censorie. Il potere ha sempre meno pudore nel parlare di filtri e censure. Il quadro nazionale è perfino peggiore. Gli epifenomeni di alcuni deputati quando si parla di "pirateria", che ingiustamente riteniamo folcloristici, segnalano una tendenza alla pura e semplice regolamentazione autoritaria della rete. Che coincide in modo quasi perfetto con l'affettamento della libertà d'accesso che le Telecom chiedono alle autorità europee e nazionali (neutralità della rete). [...] VII. L'habeas corpus va esteso all'habeas data I dati personali sono il nuovo habeas corpus violato quotidianamente dalle grandi piattaforme. Anzi, come sostiene il giurista Stefano Rodotà, bisognerebbe arrivare alla definizione di un vero e proprio diritto personale e inviolabile all' habeas data. Pubblicità, e-commerce, portabilità dei dati personali: su questo terreno si ridefiniscono i diritti individuali nella società digitale. Solo un'informazione non subordinata al potere delle piattaforme può aiutare cittadini, legislatori e portatori di interesse a compiere le scelte in modo consapevole. [...] X. La proprietà pubblica del racconto, dei racconti: la libertà della rete Il potere concepisce il giornalismo come separazione delle persone da se stesse e dalla loro realtà. Il discorso dei media in una democrazia sempre più "difettosa" tende a diventare racconto del potere, costruzione di un immaginario di bisogni omogeneo ai propri fini e omologazione valoriale. È vero, questa ricostruzione risente del "caso italiano", ma è pur vero che l'Italia sta segnando in questo senso un'esperienza di confine, un leading case del racconto mediale alienato. Sotto questo aspetto la rete è un vero nemico: in quanto luogo/mezzo di esperienze altre, di potenziale costruzione di altri percorsi, di germoglio di altre opinioni pubbliche e private, la rete è una anomalia internazionale, naturale contropotere. I racconti sono eversori del Racconto. Questa è la sfida: difendere la pluralità dei racconti. |
Il manifesto di Eretici digitali Scritto da ADMIN | Published: APRILE 30, 2009 “Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo per percepirne non le luci, ma il buio. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”. (…) “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese, ed è per questo inattuale. Ma proprio grazie a questo scarto e questo anacronismo è in grado più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. Giorgio Agamben I media sono in crisi, ma la rete rischia di sparire come luogo di libera comunicazione. Il giornalismo, che serve per la democrazia, rischia di affondare. La nuova opinione pubblica fa fatica a comprendere i rischi cui è sottoposta la libertà di espressione. Tutta la libertà di espressione, non soltanto quella degli addetti ai lavori. L’esito negativo non è scontato. Ma per cambiare le cose è necessario rileggere i rapporti tra rete e media con un approccio “eretico”, che tradisca alcuni dogmi. Una duplice eresia dei chierici del giornalismo e dei cittadini della rete che crei il nuovo racconto dei media. I neoluddisti, l’agiografia della rete e al centro il moloch del potere Tre generi di dogmi hanno urgente bisogno di essere demoliti: a. quelli del potere, che tende a legittimare solo il “racconto” dei media che gli sia mimesi e consenso b. quelli della corporazione, che scambia il supporto, la carta, con la natura del giornalismo c. l’ apologetica del digitale che preconizza la nascita di una società virtuosa perché tecnologica e si affida alle “piattaforme” , raccontando di uno sviluppo senza conflitti e buono in sé. Proponiamo alla conversazione della rete dieci tesi, un progetto aperto. I. I media sono in crisi. Ma forse non vale la pena di esultare II. La mistica dell’innovazione ha molti lati oscuri III. L’ossessione securitaria della politica e la libertà d’accesso fatta a fette IV. I nuovi intermediari sono potenti V. Le piattaforme di gestione della pubblicità sono opache VII. L’habeas corpus va esteso all’habeas data VIII. Il populismo digitale è già qui X. La proprietà pubblica del racconto, dei racconti: la libertà della rete
|
top |